lunedì 31 marzo 2014

Il "Maledetto Sud" di Vito Teti: contro i pregiudizi, a favore dell'«erranza»

«Possiamo essere qui e altrove, ma dobbiamo agire dove siamo, perché cambiamo dove restiamo». Così Vito Teti, Professore di Etnologia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo, nel corso della presentazione di Maledetto Sud (Einaudi, 2013).
 
Una serata dialettica, che ha posto domande e fornito spunti più che risposte. Una serata che mi sembra non sia ancora finita, tanto sento ancora vive le sollecitazioni che ne ho ricevuto. La presentazione di un libro di per sé "plurimo" ha dialogato col bellissimo corto Le Corbusier in Calabria di Fabio Badolato e Jonny Costantino (Baco Productions, 2009) e i momenti musicali del Parto delle Nuvole Pesanti, con le fotografie di Giulio Rimondi e la chitarra di Vitantonio Malfarà.
Grazie dunque ai 100Thousand Poets for Change di Bologna e alla loro rappresentante Pina Piccolo per averci regalato una rara ricchezza di prospettive.
 
Non può non colpire la prosa (orale e scritta) dell'autore, letterariamente educata; e poetica negli indugi descrittivi ed evocativi dedicati alla sua Calabria. Altrettanto stupisce il contenuto di un discorso che non si limita a smontare i pregiudizi più noti verso i meridionali «razza maledetta». Maledetto Sud ci offre il paradigma di un approccio trasferibile ad altre realtà e, soprattutto, rappresentativo di una modalità di incontro col reale che definirei necessaria, dal momento che viviamo in un'epoca precaria ed errante, accelerata e instabile.
 
Maledetto il Sud è un libro in apparenza sul Sud. Parte dal Sud, ma riguarda tutti noi. In qualche luogo viviamo oggi. Di qualunque pregiudizio siamo oggetto e qualunque pregiudizio nutriamo. Da qualsiasi luogo proveniamo e in qualsiasi luogo andremo. Parla di tutti noi e del nostro rapportarci al concetto di identità, anche se non ci spostassimo mai.
 
Vito Teti ha esordito parlando della mutazione antropologica che ha travolto il Sud (quello dei lavoratori, non quello dei notabili da club élitario): il valore della fatica è stato sostituito dall'«elogio della clientela e dell'invalidità». Tutti sono responsabili di questa involuzione, a cui hanno contribuito mafia, istituzioni locali e nazionali, imprenditoria settentrionale: insomma, «nessuno si salva l'anima», per il Professore calabrese.
 
I valori fondanti del mondo tradizionale sono così andati perdendosi, conducendo a quell'«apatia» che non è affatto un dato etnico del Sud, bensì il frutto della modernità. Dunque, non è il Nord che dovrebbe insorgere contro il Sud: Nord e Sud dovrebbero unirsi contro una criminalità organizzata che non coincide, in Calabria e altrove, solo con la 'ndrangheta.
 
Abbiamo visto lo stravolgimento dell'ambiente e della cultura tradizionali nel corto di Jonny Costantino e Fabio Badolato, girato in super8 nel corso di tre estati. 11 minuti in cui scorrono sullo schermo immagini di un paesaggio violentato e desolante, dove la bellezza incantevole della natura si fonde ai pali di ferro e ai mattoni abbandonati. Ne nasce una nuova bellezza, di cui è parte una strana forma di angoscia. È «abisso e incanto» insieme, per usare le parole di Costantino, amico di Antonio Moresco. È un paesaggio esteriore che si fa interiore, grazie a un linguaggio cinematografico sperimentale e raffinato, ma anche di forte impatto emozionale. Le immagini ipnotizzano se fisse o scorse dallo sguardo lento della camera, e travolgono se percorse ad alta velocità. 
 
Nel corto si vedono le «rovine della post-modernità» di cui parla Vito Teti, che in loro riconosce uno degli aspetti dell'«incompiutezza» tipica del Sud. Un'incompiutezza che non manca, tuttavia, di ragioni profonde, oltre che di una propria nobiltà.
È l'incompiutezza legata all'assuefazione alle catastrofi naturali, che obbligano a ricostruire periodicamente ciò che è andato distrutto, inclusa la propria esistenza.
Il Sud è segnato dall'emigrazione: da un punto di vista antropologico, in un mondo di uomini che partono per poi tornare, ci si abitua a iniziare lavori che si pensa saranno portati a termine dai figli. Senonché ormai nessuno torna più: si rimane al Nord.
Una declinazione dell'incompiuto è anche quella percezione dell'attesa così propria della cultura mediterranea: in Calabria si dice «“ci vediamo domani” per non vederci mai», ha ricordato Teti. 
Ma dell'incompiutezza è un segno anche l'amore per l'estro, di cui, secondo il Professore, sarebbe testimonianza il liutaio autodidatta Vito Antonio Malfarà, che a 50 anni recupera e reinventa il passato costruendo le sue chitarre battenti.
E non si può dimenticare la vitalità della musica che si fa denuncia, come nelle canzoni del Parto delle Nuvole Pesanti.

Vito Teti e Gassid Mohammed
Ma in Maledetto Sud c'è anche altro. Vito Teti valorizza l'immigrazione straniera, senza la quale molti paesi italiani sarebbero morti. E si dipana allora il tema dell'«erranza», dello sradicamento che apre un vuoto, che obbliga a diventare altro da quello che si era, che sfida a scavare nella propria «ombra», termine psicanalitico assunto per indicare i lati oscuri che emergono nei migranti di ogni luogo e tempo. Un'ombra di cui il migrante deve prendere consapevolezza. Può trattarsi di ferite antiche o di pregiudizi invalidanti, se non si ha il coraggio di affrontarli. Allora, «dobbiamo scegliere: vogliamo ignorare o conoscere e far emergere?», anche se attraverso un percorso doloroso, l'unico in grado di farci andare avanti e farci agire dove siamo? Vogliamo tutti noi rivolgere lo sguardo ben a fondo nella nostra ombra e decostruire i pregiudizi che ci impediscono di incontrare il nuovo qui e ora?
 
E questa è solo una delle domande e delle provocazioni lanciate da Maledetto Sud, un saggio antropologico e un bellissimo racconto che va ben oltre i confini del Sud da cui prende le mosse. Che spinge a mettere in discussione anche chi è fermo, ovunque sia nato o risieda, nel momento in cui incontra l'altro. Ricordando le parole dello scrittore di origine brasiliana Julio Monteiro Martins, siamo tutti migranti: se anche noi non ci muoviamo, si muove il mondo intorno a noi.

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