martedì 1 luglio 2014

Docufilm - “Ai Weiwei: The Fake Case” di Andreas Johnsen

Ai Weiei: The Fake Case (2013), diretto dal regista danese Andreas Johnsen, è il vincitore del premio come miglior documentario nella sezione Concorso Internazionale del Biografilm Festival 2014.

Nulla di sorprendente dal punto di vista filmico. Ma quanto accaduto all'artista cinese di consolidata fama internazionale a partire dalla sua scomparsa all'aeroporto di Pechino il 3 aprile 2011, doveva essere raccontato. Anzi, è lui a raccontarlo girando per casa come un animale in gabbia e attraverso le sue parole pacate e misurate, la sua attività intellettuale e artistica che poco per volta riprende slancio, le sue notti agitate interrotte da un paio d'ore di un sonno mangiato dagli incubi, i suoi vuoti di memoria e quella mano che strofina sugli occhi e sulla fronte per sciogliere invano una tensione che si trasmette anche a noi che lo guardiamo da uno schermo e in differita.

Ai Weiwei: The Fake Case si apre con l'uscita dal carcere dell'artista, subito assediato da giornalisti di cui dribbla le domande. Dicono che è dimagrito. Per 81 giorni è stato detenuto in una cella alla presenza costante di due guardie il cui lavoro era osservarlo. Lo conferma S.A.C.R.E.D., che approda alla Biennale di Venezia del 2013 dopo che sei container hanno fatto viaggiare in sei diverse parti del mondo le riproduzioni plastiche della cella e della prigionia dell'artista, che ha trascorso quasi tre mesi seduto ammanettato a una sedia con quattro occhi inchiodati su di lui, o steso su un letto con una sentinella al fianco che lo fissava, mentre l'altra marciava in diagonale per la stanza. Sottoposto a uno o due interrogatori al giorno. Nessuno con cui parlare. Niente su cui o con cui scrivere. Per 81 giorni.

La motivazione gratuita dell'arresto era un'accusa di evasione fiscale, che ogni cinese sa impossibile: in Cina nessuno paga le tasse. A tutti è subito chiaro che l'arresto è politico. Ai Weiwei doveva essere zittito. Almeno per un po'. Perché capisse. Ma l'artista è figlio di suo padre, che nel 1957 fu confinato nel Nord-Est della Cina da Mao, il dittatore-Sole verso la cui guida illuminata i cinesi, come girasoli, avrebbero dovuto volgere indefessamente il capo. Quegli stessi cinesi di cui l'artista ha rappresentato la miseria nell'esposizione del 2000 alla Tate Modern: una distesa grigia di semi di girasole in porcellana lavorata a mano, emblemi delle vittime della Grande Carestia scoppiata sotto il regime maoista. Insomma, Ai Weiwei critica troppo con la sua arte, che gli procura anche accuse di pornografia, e pure con il suo blog. Così il suo nome scompare dal web cinese (secondo l'artista, per la prima volta nella storia del suo Paese). In Google Maps, dalla via in cui risiede è cancellato il n. 258, che risponde alla sua abitazione. 

Ma è troppo tardi. Famiglia e amici, la comunità internazionale e certi settori della società cinese, soprattutto i giovani studenti, si sono mobilitati via web: è nato il sito fakecase.com.

Nei sei mesi di libertà su cauzione, Ai Weiwei è controllato e seguito. È soggetto a restrizioni, come il divieto di utilizzare internet e di parlare alla stampa straniera. Ma le infrange in modo sistematico. Ora rispedisce al mittente il portacenere nero pieno di cicche di sigarette dimenticato dalle guardie della Sicurezza Nazionale che lo seguono quando, previo permesso, esce per le sue salutari passeggiate. Ora si installa in casa quattro webcam che lo riprendono in diretta streaming 24 ore su 24. «Così li aiuto a monitorarmi», sono all'incirca le sue parole. Ora prepara S.A.C.R.E.D. Arriva anche a pubblicare sull'americano «Newsweek» un articolo, di cui non negherà la paternità, in cui scrive, a conclusione di un serie serrata di riflessioni: «Pechino è un incubo. Un incubo dal quale non ci si sveglia mai».

L'apice è raggiunto il giorno che precede la fine della sua libertà su cauzione, quando in tribunale si svolge il processo intentato dall'artista contro lo Stato cinese per la falsa accusa di evasione fiscale. Solo un avvocato ha resistito alle minacce e si presenta in una corte che è una comparsa in una farsa. Del resto, “The Fake Case” è «una causa falsa che però è una causa vera contro una compagnia falsa che però è vera», dice Ai Weiwei. La Fake Ltd. che avrebbe evaso, infatti, è un'azienda di design che non appartiene dell'artista, ma a sua moglie, donna combattiva che chiede al figlioletto Ai Lao di pronunciare “Atteggiamento non cooperativo” davanti alla videocamera di Johnsen. Così l'artista ha chiamato un suo lavoro esposto alla Biennale di Venezia del 2000. Il titolo inglese è Fuckoff.

Che la causa venga persa, è scontato. Ma «stiamo aspettando il momento in cui cominciare un'altra battaglia», dice l'artista che non vuole restare in silenzio anche se è sempre sotto minaccia. «Possiamo sempre arrestarti di nuovo. Non dobbiamo per forza rilasciarti», gli avrebbero detto. Ma la risposta è netta: «Se non agisco come ho sempre fatto, allora sono già morto». E al regista che gli domanda perché si spinga tanto oltre, Ai Weiwei ribatte: «Sto solo esercitando alcuni dei miei diritti civili».

L'artista si dice certo che la Cina «collasserà completamente» sotto la spinta della generazione degli anni Ottanta, che non accetterà mai l'isolamento a cui lo Stato cinese vorrebbe condannarla. Quel che è certo, è che Ai Weiwei: The Fake Case pone sotto i riflettori una vicenda esemplare. Il suo protagonista è un privilegiato supportato dalla comunità internazionale, ma parla e agisce per tutti. La sua storia è poi l'ennesima dimostrazione di come, grazie al web, possono nascere e crescere movimenti civili transnazionali capaci di premere sui governi, superando o infrangendo le barriere alla libertà d'espressione e alla diffusione delle informazioni laddove ce ne siano.

Spero che molti abbiano l'occasione di vedere Ai Weiwei:The Fake Case. È un documentario civile di testimonianza e di resistenza, senza retorica e senza ridondanze, che commuove e fa infuriare. Le parole escono centellinate dalla bocca di un artista dalla personalità potente ma ferita, che non ha bisogno della voce, rimasta muta troppo a lungo, per comunicare, e su cui si avverte gravare, pesante, l'ombra cupa di un governo che si infiltra nelle pieghe più intime della vita privata dei suoi cittadini.

Uscita dalla sala, mi sono sentita assordata dai silenzi, anzi dal Silenzio che lo Stato cinese vuole imporre a cuori e menti. Un Silenzio di cui Johnsen è riuscito a restituire l'oppressione. Ma mi sono anche sentita come se tenessi in mano un seme di girasole.


 

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