venerdì 3 gennaio 2014

"Suicide note from Palestine": Nabil Al-Raee e il Freedom Theatre di Jenin



Prima di tutto, voglio ricordare i loro nomi: Christine Hodali, Milad Qunebe, Ahmed Alrakh, Alaa Shehada, Saber Abu-Ashreen, Anas Arqawi, Micaela Miranda, Nabil Al-Raee. I primi sei attori, gli ultimi due registi di Suicide Note from Palestine, la pièce teatrale ispirata a Psicosi delle 4.48 di Sarah Kane erappresentata lo scorso luglio (ma è bene ricordare) nell'ambito del festival Cuore di Palestina organizzato dai “Teatri di vita” di Bologna.
La città emiliana ha offerto un palcoscenico alla prima europea di questa produzione del Freedom Theatre, il “teatro della libertà” che ha sede nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania.
Il titolo parla da sé: tra teatro fisico e videoarte, l'opera racconta allegoricamente la storia della Palestina e come è vista dalle giovani generazioni dei territori occupati.

Protagonista è la giovane Amal (Christine Hodali), in rianimazione in un ospedale onirico, prigioniera dei suoi incubi, costretta a un'immobilità da cui cerca di fuggire, ora stordita ora aggredita da figure caricaturali (esplicite allegorie delle forze politiche che hanno deciso la storia della Palestina dal 1948 in poi), osservata in continuazione da una telecamera che un aggressivo soldato in divisa nera le punta contro come un'arma. Le riprese sono trasmesse su televisori accatastati ai lati della scena, mentre altre immagini scorrono su uno scenario al centro del fondale. E le immagini dialogano con le parole urlate e le risate sguaiate, la musica classica e moderna a altissimo volume, la gestualità accentuata a fini satirici o drammatici, le scorribande grottesche e le danze infernali, gli scontri fisici e verbali che si succedono sul palcoscenico. 
Ma poi ci sono le pause delle “arie-coro” di Amal, che intona versi e preghiere, decisa a non arrendersi anche se confessa: “Mi manca con angoscia una terra che non ho mai toccato. / Ho paura che l'angoscia mi renda schiava, imprigionata in una gabbia di lacrime”.
Lo spettacolo, recitato in lingua palestinese (nessun sottotitolo; agli spettatori sono state consegnate due paginette con le tracce delle scene, riportati per intero solo i due monologhi di Amal), ci ha immerso nello spirito della resistenza culturale messa in atto dal “Freedom Theatre”.
Nabil Al-Raee
Quindi ci ha emozionato. La pièce è piuttosto ingenua, ma non credo che, in questo caso, l'interesse debba concentrarsi sull'aspetto meramente artistico. La mia attenzione, almeno, è stata catalizzata dall'esistenza del “Freedom Theatre”, dalla sua storia e da chi lo ha animato e lo anima.
Prima di tutto Nabil Al-Raee, che del “Teatro della Libertà” è anche il direttore artistico. A chi non sapesse niente di lui, basterebbe inserire il suo nome in un qualunque motore di ricerca per scoprire che è stato arrestato nel 2012 dalle forze israeliane con accuse mai provate. Liberato sotto cauzione dopo un mese di prigione (e annesse torture e minacce) anche grazie alla mobilitazione dell'opinione pubblica internazionale, ha ripreso la direzione del teatro.
Tra le presunte accuse, c'era quella di un suo coinvolgimento nella morte di Juliano Mer Khamis, precedente direttore artistico del “Freedom Theatre”, freddato a colpi di pistola da un uomo a volto coperto a qualche centinaio di metri dal teatro che aveva rifondato, seguendo le orme della madre Arna Mer.
Israeliana sposata al palestinese cristiano Saliba Khamis, ai tempi della prima Intifada Arna si era schierata a favore della popolazione araba. E non solo a parole: a Jenin aveva fondato lo “Stone Theatre” (il “Teatro delle pietre”), luogo di resistenza all'invasione israeliana attuato attraverso la cultura e rivolto alle giovani generazioni, per molti senza futuro. Concedere loro di esprimere paure, rabbia, frustrazione; offrire una possibile normalità in una terra difficile come la West Bank; promuovere una coscienza civile che si trasformasse in resistenza non violenta: questi i fini di Arna, documentati nell'intenso film che le hanno dedicato il figlio Juliano e Danniel Danniel (Arna's Children, 2013). Dopo la morte della fondatrice, molti dei bambini cresciuti allo “Stone Theatre” avrebbero preso parte in vari modi alla lotta contro l'occupazione dei territori palestinesi.
Il “Teatro delle pietre” veniva intanto distrutto nel 2002.
Juliano, divenuto nel frattempo un affermato attore israeliano, ridarà vita al progetto della madre insieme allo Zakaria Zubeidi (leader delle Brigate Al-Aqsa) che era stato suo studente: nel 2006 nasce il “Freedom Theatre”. Di cui ora è direttore artistico nabil Al-Raee, accusato di essere coinvolto nell'assassinio di Juliano e anche di collaborare con Zakaria.
Terra complessa, la West Bank. Per cui ci limitiamo a riportare fatti noti.
A noi qui importa ora che sia ancora vivo il “Freedom Theatre” col suo Freedom Bus, che porta periodicamente gli attori nei villaggi più sperduti della Cisgiordania, dove storie quotidiane di morte e di violenza vengono ascoltate e riproposte su un palcoscenico improvvisato davanti a coloro che le hanno raccontate.
“Non sappiamo come torneremo a Jenin”, dice Nabil Al-Raee al termine dello spettacolo. Sembra sereno, umilmente consapevole di essere uno dei tanti che resistono. E sorridono i volti davvero radiosi e felici dei giovani attori palestinesi, solo sei di coloro a cui il “Freedom Theatre” ha concesso un'opportunità di esperienza formativa e di crescita. Di coraggio e speranza, vorremmo dire.
Ci sentiamo di ringraziare dunque i “Teatri di vita” per averci permesso di sentire, per quanto possibile, un po' di quella Palestina che ci pare credere nella resistenza culturale.

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