Prima di tutto, voglio ricordare i loro nomi: Christine Hodali, Milad Qunebe, Ahmed Alrakh, Alaa Shehada, Saber Abu-Ashreen, Anas Arqawi, Micaela Miranda, Nabil Al-Raee. I primi sei attori, gli ultimi due registi di Suicide Note from Palestine, la pièce teatrale ispirata a Psicosi delle 4.48 di Sarah Kane erappresentata lo scorso luglio (ma è bene ricordare) nell'ambito del
festival Cuore
di Palestina
organizzato dai “Teatri di vita” di Bologna.
La
città emiliana ha offerto un palcoscenico alla prima europea di
questa produzione del Freedom Theatre, il “teatro della
libertà” che ha sede nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania.
Il
titolo parla da sé: tra teatro fisico e videoarte, l'opera racconta
allegoricamente la storia della Palestina e come è vista dalle
giovani generazioni dei territori occupati.
Protagonista è la giovane Amal (Christine Hodali), in rianimazione in un ospedale onirico, prigioniera dei suoi incubi, costretta a un'immobilità da cui cerca di fuggire, ora stordita ora aggredita da figure caricaturali (esplicite allegorie delle forze politiche che hanno deciso la storia della Palestina dal 1948 in poi), osservata in continuazione da una telecamera che un aggressivo soldato in divisa nera le punta contro come un'arma. Le riprese sono trasmesse su televisori accatastati ai lati della scena, mentre altre immagini scorrono su uno scenario al centro del fondale. E le immagini dialogano con le parole urlate e le risate sguaiate, la musica classica e moderna a altissimo volume, la gestualità accentuata a fini satirici o drammatici, le scorribande grottesche e le danze infernali, gli scontri fisici e verbali che si succedono sul palcoscenico.
Protagonista è la giovane Amal (Christine Hodali), in rianimazione in un ospedale onirico, prigioniera dei suoi incubi, costretta a un'immobilità da cui cerca di fuggire, ora stordita ora aggredita da figure caricaturali (esplicite allegorie delle forze politiche che hanno deciso la storia della Palestina dal 1948 in poi), osservata in continuazione da una telecamera che un aggressivo soldato in divisa nera le punta contro come un'arma. Le riprese sono trasmesse su televisori accatastati ai lati della scena, mentre altre immagini scorrono su uno scenario al centro del fondale. E le immagini dialogano con le parole urlate e le risate sguaiate, la musica classica e moderna a altissimo volume, la gestualità accentuata a fini satirici o drammatici, le scorribande grottesche e le danze infernali, gli scontri fisici e verbali che si succedono sul palcoscenico.
Ma poi ci
sono le pause delle “arie-coro” di Amal, che intona versi e
preghiere, decisa a non arrendersi anche se confessa: “Mi manca
con angoscia una terra che non ho mai toccato. / Ho paura che
l'angoscia mi renda schiava, imprigionata in una gabbia di lacrime”.
Nabil Al-Raee |
Quindi ci ha emozionato. La pièce è
piuttosto ingenua, ma non credo che, in questo caso, l'interesse
debba concentrarsi sull'aspetto meramente artistico. La mia attenzione, almeno, è
stata catalizzata dall'esistenza del “Freedom Theatre”, dalla sua
storia e da chi lo ha animato e lo anima.
Prima
di tutto Nabil Al-Raee, che del “Teatro della Libertà” è anche
il direttore artistico. A chi non sapesse niente di lui, basterebbe
inserire il suo nome in un qualunque motore di ricerca per scoprire
che è stato arrestato nel 2012 dalle forze israeliane con accuse mai
provate. Liberato sotto cauzione dopo un mese di prigione (e annesse
torture e minacce) anche grazie alla mobilitazione dell'opinione
pubblica internazionale, ha ripreso la direzione del teatro.
Tra
le presunte accuse, c'era quella di un suo coinvolgimento nella morte
di Juliano Mer
Khamis, precedente direttore artistico del “Freedom Theatre”,
freddato a colpi di pistola da un uomo a volto coperto a qualche
centinaio di metri dal teatro che aveva rifondato, seguendo le orme
della madre Arna Mer.
Israeliana
sposata al palestinese cristiano Saliba Khamis, ai tempi della prima
Intifada Arna si era schierata a favore della popolazione araba. E
non solo a parole: a Jenin aveva fondato lo “Stone Theatre” (il
“Teatro delle pietre”), luogo di resistenza all'invasione
israeliana attuato attraverso la cultura e rivolto alle giovani
generazioni, per molti senza futuro. Concedere loro di
esprimere paure, rabbia, frustrazione; offrire una possibile
normalità in una terra difficile come la West Bank; promuovere una
coscienza civile che si trasformasse in resistenza non violenta:
questi i fini di Arna, documentati nell'intenso film che le hanno
dedicato il figlio Juliano e Danniel Danniel (Arna's Children,
2013).
Dopo la morte della fondatrice, molti dei bambini cresciuti allo
“Stone Theatre” avrebbero preso parte in vari modi alla lotta
contro l'occupazione dei territori palestinesi.
Il
“Teatro delle pietre” veniva intanto distrutto nel 2002.
Juliano,
divenuto nel frattempo un affermato attore israeliano, ridarà
vita al progetto della madre insieme allo Zakaria
Zubeidi (leader delle Brigate Al-Aqsa)
che era stato suo studente: nel 2006 nasce il “Freedom Theatre”.
Di cui ora è direttore artistico nabil Al-Raee, accusato di essere
coinvolto nell'assassinio di Juliano e anche di collaborare con
Zakaria.
Terra
complessa, la West Bank. Per cui ci limitiamo a riportare fatti noti.
A
noi qui importa ora che sia ancora vivo il “Freedom Theatre” col
suo Freedom Bus, che porta periodicamente gli attori nei villaggi più
sperduti della Cisgiordania, dove storie quotidiane di morte e di
violenza vengono ascoltate e riproposte su un palcoscenico
improvvisato davanti a coloro che le hanno raccontate.
“Non
sappiamo come torneremo a Jenin”, dice Nabil Al-Raee al termine
dello spettacolo. Sembra sereno, umilmente consapevole di essere uno
dei tanti che resistono. E sorridono i volti davvero radiosi e felici
dei giovani attori palestinesi, solo sei di coloro a cui il “Freedom
Theatre” ha concesso un'opportunità di esperienza formativa e di
crescita. Di coraggio e speranza, vorremmo dire.
Ci
sentiamo di ringraziare dunque i “Teatri di vita” per averci
permesso di sentire, per quanto possibile, un po' di quella Palestina
che ci pare credere nella resistenza culturale.
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