«La
testa vibra come un bordo tumescente di campana – ohi –. Devo
gonfiare e torcere la bocca. – Ohi!
–.»
Sono
le prime parole in tedesco che compaiono nel Leviatano
o il migliore dei mondi,
racconto d'esordio del tedesco Arno Schmidt (1914-1979). E forse con
la testa che pulsava, mentre la bocca si contorceva disgustata in un
ghigno di disprezzo e amarezza, coi lineamenti tirati dallo sforzo di
una scrittura tesissima tra rigoroso controllo razionale ed
espressionismo urlato, l'autore si immerse, fin quasi al naufragio,
nel racconto della drammatica crisi del suo presente. Fu una crisi
privata e una crisi storica, culturale e antropologica, esplosa con
l'avvento del Terzo Reich e le sue conseguenze di lunga durata; una
crisi individuale e universale inscritta nella prosa sofferta,
dilaniata, aggressiva e contundente
del Leviatano.
Uscito
in Germania nel 1949, finalmente oggi, nel 2013, la Mimesis ne
pubblica, all'interno della collana “Il Quadrifoglio tedesco”, la
prima edizione corredata da testo a fronte, con premessa e commenti
puntuali del curatore e traduttore Dario Borso, docente di Storia
della Filosofia all’Università di Milano. Per chi scrive, questo è
un piccolo-grande evento per la cultura e l'editoria italiane. Lo
scomodissimo Arno Schmidt, unanimemente riconosciuto tra i maggiori
scrittori tedeschi della seconda metà del '900, ha faticato a essere
ben accolto in un'Italia soggetta, a partire dal secondo dopoguerra,
alla dittatura culturale di un'intellighenzia
di sinistra egemonizzata dalle case Feltrinelli e Einaudi. Ma di
queste vicende – non sorprendenti, anzi piuttosto scontate e
nondimeno imbarazzanti – preferisco parlare più avanti.
Ciò
che conta è che, a circa cinquant'anni dalla sua pubblicazione in
Germania e a venti dall'edizione
curata
per Linea d'ombra da Maria Teresa Mandalari (1991), il
Leviatano
torna
a essere
accessibile – e in un'edizione arricchita dal testo in lingua
originale oltre che da utilissimi strumenti esegetici – non solo a
una ristrettissima cerchia di lettori, ma a un pubblico più ampio,
che può finalmente
incontrare la prima opera tedesca in cui si parli dei campi di
concentramento e, soprattutto, l'originalissima scrittura di Arno
Schmidt, che colpì già i lettori contemporanei più consapevoli.
Apriamo,
quindi,
il sottile volume che, in forma diaristica, racconta quanto accadde a
un soldato dell'esercito del Terzo Reich tra le 14,16 del 14 febbraio
1945 e le 8,20 del 16 febbraio dello stesso anno. Il soldato sta
scappando verso Ovest insieme a un bizzarro e variegato coacervo di
altri tedeschi in fuga da una Germania ormai invasa dalle truppe
russe e dagli alleati che bombardano a tappeto città come Berlino e
Dresda. Quest'ultima, tra le più importanti capitali culturali
europee, fu distrutta tra il 13 e il 14 febbraio 1945. Il coltissimo
Schmidt non scelse certo a caso le coordinate temporali del suo
Leviatano.
La
prima pagina del racconto reca luogo e data, non seguite tuttavia da
un frammento del diario, bensì dalla breve lettera di un tipico
soldato americano, dal nome tipico di Jonny (scritto non
correttamente, come non sorprende, data la spregiudicata acredine di
Schmidt, e se Jonny viene a rappresentare il militare americano
medio, di cultura e coscienza civile anche meno che media, facile a
diventare cieco e docile suddito di un Potere di cui non discute i
mezzi e i fini). Il messaggio è del 20 maggio 1945, a catastrofe
avvenuta. È piuttosto felice, Jonny, mentre scrive alla moglie Betty
a i figli. Ormai Berlino è in mano ai russi e agli alleati, e Jonny
spera di tornare presto a casa. Il Leviatano
si
apre, dunque, con una dichiarazione di “crisi finale”: alla
sconfitta della Germania seguiranno giorni duri per i tedeschi che
dovettero militare tra le fila dell'esercito nazista, come è il caso
del narratore e di Schmidt.
Poi
inizia il diario, costituito da frammenti redatti da un soldato in
fuga su un treno a incessante rischio di bombardamento. Sono con lui,
tra gli altri, militari grezzi e ostinati seguaci del Führer,
i cui occhi «luccicavano come vetri di manicomi in fiamme»;
semplice gente di campagna; un pastore protestante; un impiegato
delle poste curioso delle teorie filosofico-matematiche del redattore
del diario (ricco di richiami che presuppongono una cultura vasta e
profonda). Ma c'è anche una bambina che, morente, accompagna i
fuggitivi per la maggior parte del tragitto. E c'è Anna Wolf. Il
colto, razionalista, infuriato e pungente diarista di un viaggio che
non condurrà ad alcuna salvezza, incontra la donna che aveva
desiderato, fanciulla, ai tempi della scuola. Anna è cambiata, ma
ora è l'unica a porgli domande sulle sue teorie apparentemente
astruse senza alcuna ansia di controbattere e confutare. È l'unica
capace di ricondurlo, attraverso il ricordo dell'infatuazione
giovanile, alla «beata servitù» dell'amore; forse, meglio,
dell'attrazione profonda e della consonanza intima, capace di aprire
spiragli di vita, passione e pensiero in grado di fluire nuovamente
in un'anima esulcerata e lacerata, con la naturalezza e la forza che
si prova quando si ritorna in contatto con sé stessi.
Trasfigurazione letteraria di una giovane di cui Arno Schmidt
realmente si invaghì (moltissimi, nel Leviatano,
i riferimenti a esperienze reali dell'autore, che nel racconto ha
sicuramente elaborato la sua drammatica esperienza bellica), Anna
appare come una «lucente quiete». L'Anna adulta è cambiata, ma
l'Anna sognata dal protagonista «meditava e cercava di capire», col
suo «silenzio accarezzante». «Il suo viso era chiaro dei miei
occhi». Anna è la luce che persiste nel cantuccio d'anima rimasto
puro e vivo nel soldato traumatizzato e sconvolto dalla catastrofe a
cui ha condotto il dominio del Leviatano.
Nella
mitologia ebraica, il Leviatano è un mostro marino assimilabile a un
immenso drago assetato di sangue, apparso il quinto giorno della
creazione e personificazione di Satana. Ci si ricorda allora di
Giobbe, e poi di Hobbes che identificava il suo Leviatano
(1651) con lo Stato. Sulla loro scia, Schmidt sostiene che, in questo
che è «il migliore dei mondi», il Male è il Potere e, nella
realtà dominata dall'arendtiana «banalità del male» cui ha
contribuito l'ipertrofica burocratizzazione dei regimi totalitari,
l'umanità vi si assoggetta.
«Obbedienza cieca pare che porti sempre uniforme nera», scrive il
soldato/Schmidt. Allora, «per valutare l'essenza del suddetto
demone, dobbiamo guardarci fuori e dentro di noi. Noi stessi appunto
facciamo parte di lui: che Satana sarà mai Egli dunque? E trovare il
mondo bello e ben congegnato può solo il signor von Leibniz»,
convinto assertore che quello in cui viviamo sia il migliore dei
mondi possibili. Quest'ultima aggiunta è, ovviamente, espunta dal
razionalista Schmidt. Che fare dunque per opporsi al Leviatano?
Giobbe scriveva: «Mettigli le mani addosso, ti ricorderai del
combattimento e non ci riproverai». Schmidt afferma la sua sfiducia
nella «possibilità di contrapporre la volontà individuale
all'enorme volontà generale del Leviatano, la qual cosa [...],
considerando la differenza tra le grandezze, sembra per ora
totalmente impossibile, almeno sul “piano umano” degli essere
dotati d'intelletto». Drasticamente pessimistica la conclusione:
«Questo mondo è qualcosa che sarebbe meglio non fosse; chi dice il
contrario, mente!».
Ma
esiste la scrittura, necessaria a urlare l'orrore e a non
soccombervi, e insieme funzionale a una presa di coscienza. Ecco
allora Schmidt sgranare lo sguardo sul suo tempo e sulla presenza del
demone intorno e dentro l'uomo. Lo scrittore tedesco non solo è il
primo a parlare, nel
Leviatano,
dei campi di concentramento. Sarà anche il primo a scrivere un
romanzo duramente critico nei confronti delle due Germanie (Il
cuore di pietra,
pubblicato in versione censurata nel 1956, non censurata nel 1967).
Schmidt si àncora
alla lucidità dell'argomentazione filosofico-matematica, che non
potrà distruggere il mostro ma forse impedire che se ne venga
invasi. Ed eccolo accampare un'ideologica anarchica. Eccolo
soprattutto urlare contro il Potere attraverso la sua prosa dura e
tesa, sempre sotto sforzo, all'espressione di sé e alla resistenza.
Tu, Potere, distruggi il mondo. Io, scrittore, insisto a
raccontartelo, il mondo, pur quasi senza forze e fiato, pur ansimando
e arrancando, afferrando i lacerti rimasti intelligibili di
quell'universo che vuoi annientare dopo averlo assimilata a te.
Leggere
il Leviatano
non
è una passeggiata. Ma è un viaggio da farsi per chiunque voglia
sentire un'anima tendersi e contorcersi nell'urlo. Plurilinguismo e
pluristilismo sono tra i caratteri portanti di un discorso
originalissimo, animato da un idioletto ipercolto di assoluta
efficacia emotiva prima che estetica. La sintassi è frammentata.
Nella disgregazione e nel disorientamento dell'anima individuale di
fronte al caos aberrante prodotto dal dominio del Leviatano, il
soldato coglie i frammenti duri di una realtà irriconducibile alla
razionalità, afferra percezioni che fissa prima che siano
inghiottite da un'annichilente follia. Si artiglia alla realtà
sensibile, oltre che alla speculazione matematico-filosofica. La
punteggiatura è sconvolta. L'uso del punto e virgola, la
nominalizzazione, l'assenza di articoli, la duplicazione (ossessiva e
razionale), le discontinuità e le ellissi, le incoerenze verbali,
l'uso delle parentesi e dei trattini, per citare solo alcuni tratti
tipici, sono il segno della difficoltà ad articolare coerentemente
ciò che appare esploso all'uomo che, impotente, è colpito e ferito
dalle schegge di un mondo impazzito. Arno Schmidt si muove tra una
razionalità coraggiosamente ostinata e l'accettazione della
deflagrazione del tutto, tra la volontà di essere presente
raccontando la sua percezione soggettiva di un Potere demoniaco e
l'accettazione della frammentazione oggettiva e traumatizzante
operata dal Leviatano.
Come
si legge nella Premessa al
Leviatano,
il sergente artigliere Schmidt fu catturato dagli inglesi nell'aprile
del 1945 e internato in un campo di prigionia. Liberato alla fine
dell'anno, si ricongiungerà con la moglie Alice con la quale
lavorerà come interprete in una scuola di polizia ausiliaria.
Proprio qui comincerà a pensare a un racconto di guerra, che
scriverà sui fogli di un formulario inglese per telegrammi.
Seguiranno anni difficili per lo scrittore, che viaggerà in tandem
con la moglie e vivrà in tenda nei boschi. È descritto come
poverissimo e goffo nei suoi abiti raffazzonati e con occhiali di
tartaruga che ingigantivano i suoi occhi dallo sguardo acuto,
tormentato e agguerrito.
Un'esistenza
difficile in vita come in morte, quella di Schmidt. Di certo in
Italia. È dunque ora di riprendere il discorso lasciato in sospeso.
Lo ritengo un necessario memento,
ma che rimanga
in
calce.
Vergognosamente,
il Leviatano
non fu pubblicato perché indigesto all'ottimismo social-comunista
imperante. L'edizione tedesca originale del testo era corredata da
due racconti storici. Cesare Cases, ai tempi al soldo di Einaudi,
decise di dare alle stampe i due racconti di ambientazione
greco-romana insieme al Cosma
(altro
racconto storico) del 1955. Nel 1965 comparirà dunque Alessandro
o della verità.
Il Leviatano,
“non organico” e potenziale sobillatore di riflessioni “non
organiche”, venne espulso dalla categoria dei pubblicabili. Gli
sarà concesso spazio solo in una miserrima (e controllata/depurata)
traduzione nel 1966 sulla rivista «Il Menabò». Oggi, la casa
editrice Mimesis pone fine a una lacuna che è culturale quanto più
non potrebbe. Null'altro da aggiungere, al riguardo.
Il Leviatano termina con la frase: «Ecco sventolo via il quaderno: volate, brandelli!». Qualcuno, quei brandelli, li ha raccolti e ne ha riconosciuto il potente tesoro. Di là dal valore culturale e letterario, il Leviatano è la testimonianza di uno scrittore tragicamente dilaniato, ostinato, decisamente politically incorrect, teso nel disumano sforzo di raccontare una realtà che brucia e divora. Come brucia la prosa di Arno Schmidt, che inviterei a “sentire” prima che a comprendere. Nel 1952, l'autore del resto scrisse che da lui non si potevano «pretendere dame pesche e rose, ma solo ghiande e vegetali in polvere – acqua ne ha abbastanza comunque ogni lettore».
(già pubblicato qui: http://issuu.com/sulromanzo/docs/sul_romanzo_anno_3_n_6_dic_2013)
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