domenica 29 dicembre 2013

"Leviatano o il migliore dei mondi possibili": la lotta di Arno Schmidt col demone del Potere

«La testa vibra come un bordo tumescente di campana – ohi –. Devo gonfiare e torcere la bocca. – Ohi! –.»
Sono le prime parole in tedesco che compaiono nel Leviatano o il migliore dei mondi, racconto d'esordio del tedesco Arno Schmidt (1914-1979). E forse con la testa che pulsava, mentre la bocca si contorceva disgustata in un ghigno di disprezzo e amarezza, coi lineamenti tirati dallo sforzo di una scrittura tesissima tra rigoroso controllo razionale ed espressionismo urlato, l'autore si immerse, fin quasi al naufragio, nel racconto della drammatica crisi del suo presente. Fu una crisi privata e una crisi storica, culturale e antropologica, esplosa con l'avvento del Terzo Reich e le sue conseguenze di lunga durata; una crisi individuale e universale inscritta nella prosa sofferta, dilaniata, aggressiva e contundente del Leviatano.
 
Uscito in Germania nel 1949, finalmente oggi, nel 2013, la Mimesis ne pubblica, all'interno della collana “Il Quadrifoglio tedesco”, la prima edizione corredata da testo a fronte, con premessa e commenti puntuali del curatore e traduttore Dario Borso, docente di Storia della Filosofia all’Università di Milano. Per chi scrive, questo è un piccolo-grande evento per la cultura e l'editoria italiane. Lo scomodissimo Arno Schmidt, unanimemente riconosciuto tra i maggiori scrittori tedeschi della seconda metà del '900, ha faticato a essere ben accolto in un'Italia soggetta, a partire dal secondo dopoguerra, alla dittatura culturale di un'intellighenzia di sinistra egemonizzata dalle case Feltrinelli e Einaudi. Ma di queste vicende – non sorprendenti, anzi piuttosto scontate e nondimeno imbarazzanti – preferisco parlare più avanti.
 
Ciò che conta è che, a circa cinquant'anni dalla sua pubblicazione in Germania e a venti dall'edizione curata per Linea d'ombra da Maria Teresa Mandalari (1991), il Leviatano torna a essere accessibile – e in un'edizione arricchita dal testo in lingua originale oltre che da utilissimi strumenti esegetici – non solo a una ristrettissima cerchia di lettori, ma a un pubblico più ampio, che può finalmente incontrare la prima opera tedesca in cui si parli dei campi di concentramento e, soprattutto, l'originalissima scrittura di Arno Schmidt, che colpì già i lettori contemporanei più consapevoli.

Apriamo, quindi, il sottile volume che, in forma diaristica, racconta quanto accadde a un soldato dell'esercito del Terzo Reich tra le 14,16 del 14 febbraio 1945 e le 8,20 del 16 febbraio dello stesso anno. Il soldato sta scappando verso Ovest insieme a un bizzarro e variegato coacervo di altri tedeschi in fuga da una Germania ormai invasa dalle truppe russe e dagli alleati che bombardano a tappeto città come Berlino e Dresda. Quest'ultima, tra le più importanti capitali culturali europee, fu distrutta tra il 13 e il 14 febbraio 1945. Il coltissimo Schmidt non scelse certo a caso le coordinate temporali del suo Leviatano.
 
La prima pagina del racconto reca luogo e data, non seguite tuttavia da un frammento del diario, bensì dalla breve lettera di un tipico soldato americano, dal nome tipico di Jonny (scritto non correttamente, come non sorprende, data la spregiudicata acredine di Schmidt, e se Jonny viene a rappresentare il militare americano medio, di cultura e coscienza civile anche meno che media, facile a diventare cieco e docile suddito di un Potere di cui non discute i mezzi e i fini). Il messaggio è del 20 maggio 1945, a catastrofe avvenuta. È piuttosto felice, Jonny, mentre scrive alla moglie Betty a i figli. Ormai Berlino è in mano ai russi e agli alleati, e Jonny spera di tornare presto a casa. Il Leviatano si apre, dunque, con una dichiarazione di “crisi finale”: alla sconfitta della Germania seguiranno giorni duri per i tedeschi che dovettero militare tra le fila dell'esercito nazista, come è il caso del narratore e di Schmidt.
 
Poi inizia il diario, costituito da frammenti redatti da un soldato in fuga su un treno a incessante rischio di bombardamento. Sono con lui, tra gli altri, militari grezzi e ostinati seguaci del Führer, i cui occhi «luccicavano come vetri di manicomi in fiamme»; semplice gente di campagna; un pastore protestante; un impiegato delle poste curioso delle teorie filosofico-matematiche del redattore del diario (ricco di richiami che presuppongono una cultura vasta e profonda). Ma c'è anche una bambina che, morente, accompagna i fuggitivi per la maggior parte del tragitto. E c'è Anna Wolf. Il colto, razionalista, infuriato e pungente diarista di un viaggio che non condurrà ad alcuna salvezza, incontra la donna che aveva desiderato, fanciulla, ai tempi della scuola. Anna è cambiata, ma ora è l'unica a porgli domande sulle sue teorie apparentemente astruse senza alcuna ansia di controbattere e confutare. È l'unica capace di ricondurlo, attraverso il ricordo dell'infatuazione giovanile, alla «beata servitù» dell'amore; forse, meglio, dell'attrazione profonda e della consonanza intima, capace di aprire spiragli di vita, passione e pensiero in grado di fluire nuovamente in un'anima esulcerata e lacerata, con la naturalezza e la forza che si prova quando si ritorna in contatto con sé stessi. Trasfigurazione letteraria di una giovane di cui Arno Schmidt realmente si invaghì (moltissimi, nel Leviatano, i riferimenti a esperienze reali dell'autore, che nel racconto ha sicuramente elaborato la sua drammatica esperienza bellica), Anna appare come una «lucente quiete». L'Anna adulta è cambiata, ma l'Anna sognata dal protagonista «meditava e cercava di capire», col suo «silenzio accarezzante». «Il suo viso era chiaro dei miei occhi». Anna è la luce che persiste nel cantuccio d'anima rimasto puro e vivo nel soldato traumatizzato e sconvolto dalla catastrofe a cui ha condotto il dominio del Leviatano.
 
Nella mitologia ebraica, il Leviatano è un mostro marino assimilabile a un immenso drago assetato di sangue, apparso il quinto giorno della creazione e personificazione di Satana. Ci si ricorda allora di Giobbe, e poi di Hobbes che identificava il suo Leviatano (1651) con lo Stato. Sulla loro scia, Schmidt sostiene che, in questo che è «il migliore dei mondi», il Male è il Potere e, nella realtà dominata dall'arendtiana «banalità del male» cui ha contribuito l'ipertrofica burocratizzazione dei regimi totalitari, l'umanità vi si assoggetta. «Obbedienza cieca pare che porti sempre uniforme nera», scrive il soldato/Schmidt. Allora, «per valutare l'essenza del suddetto demone, dobbiamo guardarci fuori e dentro di noi. Noi stessi appunto facciamo parte di lui: che Satana sarà mai Egli dunque? E trovare il mondo bello e ben congegnato può solo il signor von Leibniz», convinto assertore che quello in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili. Quest'ultima aggiunta è, ovviamente, espunta dal razionalista Schmidt. Che fare dunque per opporsi al Leviatano? Giobbe scriveva: «Mettigli le mani addosso, ti ricorderai del combattimento e non ci riproverai». Schmidt afferma la sua sfiducia nella «possibilità di contrapporre la volontà individuale all'enorme volontà generale del Leviatano, la qual cosa [...], considerando la differenza tra le grandezze, sembra per ora totalmente impossibile, almeno sul “piano umano” degli essere dotati d'intelletto». Drasticamente pessimistica la conclusione: «Questo mondo è qualcosa che sarebbe meglio non fosse; chi dice il contrario, mente!».
 
Ma esiste la scrittura, necessaria a urlare l'orrore e a non soccombervi, e insieme funzionale a una presa di coscienza. Ecco allora Schmidt sgranare lo sguardo sul suo tempo e sulla presenza del demone intorno e dentro l'uomo. Lo scrittore tedesco non solo è il primo a parlare, nel Leviatano, dei campi di concentramento. Sarà anche il primo a scrivere un romanzo duramente critico nei confronti delle due Germanie (Il cuore di pietra, pubblicato in versione censurata nel 1956, non censurata nel 1967). Schmidt si àncora alla lucidità dell'argomentazione filosofico-matematica, che non potrà distruggere il mostro ma forse impedire che se ne venga invasi. Ed eccolo accampare un'ideologica anarchica. Eccolo soprattutto urlare contro il Potere attraverso la sua prosa dura e tesa, sempre sotto sforzo, all'espressione di sé e alla resistenza. Tu, Potere, distruggi il mondo. Io, scrittore, insisto a raccontartelo, il mondo, pur quasi senza forze e fiato, pur ansimando e arrancando, afferrando i lacerti rimasti intelligibili di quell'universo che vuoi annientare dopo averlo assimilata a te.
 
Leggere il Leviatano non è una passeggiata. Ma è un viaggio da farsi per chiunque voglia sentire un'anima tendersi e contorcersi nell'urlo. Plurilinguismo e pluristilismo sono tra i caratteri portanti di un discorso originalissimo, animato da un idioletto ipercolto di assoluta efficacia emotiva prima che estetica. La sintassi è frammentata. Nella disgregazione e nel disorientamento dell'anima individuale di fronte al caos aberrante prodotto dal dominio del Leviatano, il soldato coglie i frammenti duri di una realtà irriconducibile alla razionalità, afferra percezioni che fissa prima che siano inghiottite da un'annichilente follia. Si artiglia alla realtà sensibile, oltre che alla speculazione matematico-filosofica. La punteggiatura è sconvolta. L'uso del punto e virgola, la nominalizzazione, l'assenza di articoli, la duplicazione (ossessiva e razionale), le discontinuità e le ellissi, le incoerenze verbali, l'uso delle parentesi e dei trattini, per citare solo alcuni tratti tipici, sono il segno della difficoltà ad articolare coerentemente ciò che appare esploso all'uomo che, impotente, è colpito e ferito dalle schegge di un mondo impazzito. Arno Schmidt si muove tra una razionalità coraggiosamente ostinata e l'accettazione della deflagrazione del tutto, tra la volontà di essere presente raccontando la sua percezione soggettiva di un Potere demoniaco e l'accettazione della frammentazione oggettiva e traumatizzante operata dal Leviatano.
 
Come si legge nella Premessa al Leviatano, il sergente artigliere Schmidt fu catturato dagli inglesi nell'aprile del 1945 e internato in un campo di prigionia. Liberato alla fine dell'anno, si ricongiungerà con la moglie Alice con la quale lavorerà come interprete in una scuola di polizia ausiliaria. Proprio qui comincerà a pensare a un racconto di guerra, che scriverà sui fogli di un formulario inglese per telegrammi. Seguiranno anni difficili per lo scrittore, che viaggerà in tandem con la moglie e vivrà in tenda nei boschi. È descritto come poverissimo e goffo nei suoi abiti raffazzonati e con occhiali di tartaruga che ingigantivano i suoi occhi dallo sguardo acuto, tormentato e agguerrito.
 
Un'esistenza difficile in vita come in morte, quella di Schmidt. Di certo in Italia. È dunque ora di riprendere il discorso lasciato in sospeso. Lo ritengo un necessario memento, ma che rimanga in calce. Vergognosamente, il Leviatano non fu pubblicato perché indigesto all'ottimismo social-comunista imperante. L'edizione tedesca originale del testo era corredata da due racconti storici. Cesare Cases, ai tempi al soldo di Einaudi, decise di dare alle stampe i due racconti di ambientazione greco-romana insieme al Cosma (altro racconto storico) del 1955. Nel 1965 comparirà dunque Alessandro o della verità. Il Leviatano, “non organico” e potenziale sobillatore di riflessioni “non organiche”, venne espulso dalla categoria dei pubblicabili. Gli sarà concesso spazio solo in una miserrima (e controllata/depurata) traduzione nel 1966 sulla rivista «Il Menabò». Oggi, la casa editrice Mimesis pone fine a una lacuna che è culturale quanto più non potrebbe. Null'altro da aggiungere, al riguardo.

Il Leviatano termina con la frase: «Ecco sventolo via il quaderno: volate, brandelli!». Qualcuno, quei brandelli, li ha raccolti e ne ha riconosciuto il potente tesoro. Di là dal valore culturale e letterario, il Leviatano è la testimonianza di uno scrittore tragicamente dilaniato, ostinato, decisamente politically incorrect, teso nel disumano sforzo di raccontare una realtà che brucia e divora. Come brucia la prosa di Arno Schmidt, che inviterei a “sentire” prima che a comprendere. Nel 1952, l'autore del resto scrisse che da lui non si potevano «pretendere dame pesche e rose, ma solo ghiande e vegetali in polvere – acqua ne ha abbastanza comunque ogni lettore».


 

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