L'ultima
madre
di
Giovanni Greco è una
madre di Plaza De Mayo,
anzi è tutte le madri e le abuelas
di
Plaza de Mayo,
metaforicamente e perché nel suo ritratto credo confluiscano le
emozioni, le esperienze e le riflessioni delle donne che l'autore ha
incontrato nel corso dei suoi viaggi di ricerca a Buenos Aires.
Lo
scrittore è già noto al pubblico per Malacrianza
(Nutrimenti,
2012),
vincitore del Premio Calvino e finalista allo Strega e al Viareggio.
Forse non tutti sanno che è anche traduttore e, prima ancora, autore
e regista teatrale. Proprio in quest'ultima veste ha portato sulle
scene lo spettacolo che ha poi trasformato nell'Ultima
madre,
uscito quest'anno per Nutrimenti-Feltrinelli.
Il
lavoro è il frutto di due anni di indagini che hanno portato
Giovanni Greco per tre volte a Buenos Aires,
dove ha incontrato madri che hanno visto i loro figli morire,
scomparire o venir loro sottratti perché crescessero in sani
ambienti filo-dittatoriali. Quelli abitati da individui «deformi
dentro» prima che diventassero «deformi fuori», in una vecchiaia
ben diversa da quella delle donne che ancora girano il mondo, incluso
il nostro Paese, per mantenere viva la memoria di una pagina della
storia argentina
su cui c'è ancora molto da indagare.
Tra
il 1976 e il 1983, durante il Processo di Riorganizzazione Nazionale
voluto da Videla, capo della Giunta militare salita al potere con un
colpo di stato, si impose un
regime autoritario intenzionato a reprimere ogni forma di dissidenza.
Le operazioni messe in atto dal dittatore e dai suoi successori
portarono a 30
000 desaperecidos,
2300 omicidi politici e 600 bambini trafugati, di cui solo 109, ormai
trentenni o quarantenni, sono stati restituiti alle famiglie.
Sono dati, ma importanti per capire cosa spinga madri e abuelas
a
continuare a testimoniare e a cercare i figli e i nipoti perduti, e
perché prima di scrivere Giovanni Greco abbia voluto documentarsi,
consultando tra l'altro il noto rapporto Nunca
más
[Mai
più],
visitando luoghi dell'orrore come la famigerata ESMA
e incontrando le combattenti donne di Plaza de Mayo.
Quei
dati e quegli incontri sono serviti per raccontare una storia che non
ha nulla del reportage e non è nemmeno un romanzo storico. L'ultima
madre è un romanzo d'amore e resistenza; è un libro
sulla ricerca della verità e sulla memoria.
Sono
tre le grandi protagoniste. María è il vertice forte della
trinità al femminile creata da Giovanni Greco. È una donna
semplice, che vive in un barrio popolare di Buenos Aires
insieme al marito muratore di origini italiane e e ai figli Pablo e
Miguel. Mercedes è il vertice malato. Figlia e sposa di alti
ufficiali del regime militare, appartiene alla migliore società
argentina, ma ha «la pancia di ghiaccio»: è sterile. In preda a
una follia che la conduce a una gravidanza isterica, il padre trova
il modo di darle due gemelli, Mari e Nacho, nati dal ventre di una
militante imprigionata e torturata di nome Irene.
Irene il vertice sfuggente e insieme l'origine invisibile della
storia. Invisibile come la città a cui
Calvino (citato in epigrafe) diede il nome: «Irene
calamita sguardi e pensieri di chi sta là in alto. […] Irene è un
nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia. La città per
chi passa senza entrarci è una, e un'altra per chi ne è preso e non
ne esce; una è la città in cui s'arriva la prima volta, un'altra
quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso;
forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato
che di Irene».
Nel
groviglio di interrelazioni che il romanzo discioglie poco a poco,
Irene è la madre cancellata che ritorna e trasforma.
È la donna che proviene dal mondo delle ombre e risale alla memoria,
offrendo in dono la verità. Penso ad esempio a Mari che, dopo la
morte del fratello gemello, recupera la propria identità di figlia
di Irene. Nell'Ultima madre
ci si aggira tra violenze, menzogne, miraggi e ombre, alla ricerca di
una verità che può assumere una dimensione edipica. Ma «la nostra
scienza discende dall'osservazione delle ombre», scrive l'Ezra Pound
ricordato da Greco.
Le
madri di Plaza de Mayo hanno vissuto tra ombre, ne sono abitate, ma
hanno voluto osservarle. Ha voluto farlo María, “doppio”
costruttivo e fertile di Mercedes. Le storie
delle due donne si avviluppano le une alle altre lungo la corda
ritorta di una linea temporale sconnessa.
L'autore alterna capitoli dedicati ora all'una ora all'altra, per di
più segnati da una sfasatura temporale che continuamente slitta
dagli anni Settanta al 2011, senza apparente soluzione di continuità.
Una sfasatura che dice l'inconciliabilità di due dimensioni, ma
anche il necessario ritorno al passato per rivivere, comprendere e
disperdere le ombre persistenti. Dice il percorso doloroso ma
ostinato alla ricerca di un vertice saldo, di radici ferme, di
un'identità ri-costruita attraverso la memoria ritrovata.
Una
prosa musicale informa il racconto come un'onda che il tempo discreto
e «strangolato» non potrà mai fermare. È l'onda del liquido
materno, del cordone ombelicale che vi nuota e lega una madre al
figlio da nutrire. È un mare di onde più
forti di qualunque violenza della storia. A sommuoverle è l'oralità
di un cantastorie moderno e raffinato, che
sceglie la terza persona, ma se vuole, silenzioso e inavvertito,
scivola nel cuore dei suoi personaggi. Ne assume il punto di vista e
la voce, che fonde alla propria. E poi torna all'aperto. È così
tutto un susseguirsi ininterrotto di maree, mimate da un dettato in
cui la lingua, diretta e piana, nuota in una sintassi liquida, che
scorre incessante in forza di un suo ritmo immanente.
È
grazie al cantastorie che si amplifica ed espande la storia di María,
«di quelle che i capelli si tagliano con la luna nuova perché
crescono più forti», “ultima madre”
soprattutto perché massima somma di tutte le madri.
Lei che, ormai anziana, ha ancora «la pancia,
quella sua pancia, quel suo ventre, come attaccato a un lungo osso
spolpato, che è gigantesco, quello di una donna che conta gli ultimi
giorni, maledice le ultime ore prima di partorire. Sì, una bella
pancia a punta, che si dice sarà femmina, che non ci sta più sotto
il vestito come tutte le pance di tutte le donne che maledicono con
un sorriso gli ultimi minuti prima del parto – una pancia sopra la
quale, ogni tanto, quelle mani spinose passano e ripassano e poi d’un
tratto si fermano a cercare di capire se per caso non sia tutto uno
scherzo quei nove mesi…».
Il
termine del romanzo, il sipario cala bruscamente: «ed è la fine,
l’ultimo istante, l’ultimo rintocco, l’ultima porta che si apre
al sorriso dell’ultima m». Ma è solo una sospensione.
Il cantastorie, legato a doppio filo alla storia delle madri, ora
tace. Però sa che c'è ancora da raccontare. Qualcun altro di coloro
che «resistono senza
speranza», a cui Greco dedica il romanzo, prenderà voce, o gliela
presterà un nuovo cantastorie. Perché María, l'ultima madre che
incarna tutte le madri, vive ancora, «in quel
corridoio, quello stesso corridoio che accoglieva in silenzio stretto
la sua fitta che si ammorbidiva ora tra i mille sguardi diversi che
le arrivavano dalle pareti, che ora era tutto tappezzato di foto, il
piccolo corridoio, da cima a fondo, dalla stanza alla porta, dal
soffitto al pavimento… Di nuovo era lì, è lì immobile, María,
in quel corridoio, il corridoio di una vita, circondata dalle foto di
una vita che lei stessa ha appeso una dopo l’altra, una sull’altra,
in tanti anni dopo quella mattina, fino alla sera prima, tante foto
che si tolgono l’aria a vicenda, si sovrappongono le une alle
altre, formando strane figure, inventando incontri impossibili,
accostando passato e futuro».
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