The
Look of Silence di
Joshua Oppenheimer, vincitore del Gran Premio della Giuria alla 71a
Mostra
del Cinema di Venezia, è molto più che un mero documentario di denuncia.
Il regista statunitense punta di nuovo lo sguardo sull'Indonesia
protagonista del suo precedente e pluripremiato The
Act of Killing,
in cui i responsabili degli eccidi perpetrati sotto il regime di
Suharto erano arruolati come interpreti di uno spettacolo grottesco:
la rappresentazione delle stragi di cui erano stati responsabili e in
cui erano chiamati a giocare sia il ruolo dei carnefici sia quello
delle vittime. The
Act of Killing
era
il risultato di un lavoro costato cinque anni di riprese (dal 2005 al
2010) e che ha convinto tanto il pubblico quanto la critica.
Con
The
Look of Silence Oppenheimer
torna agli anni bui delle assassini di massa avvenuti nel 1965 in
un'Indonesia controllata dagli U.S.A.
«Dovrebbero regalarci un viaggio in America», dice uno dei “soldati
del popolo” manovrato dall'abile e sperimentata propaganda
americana, che ha trasformato gli oppositori del regime in
“comunisti”, quindi in uomini da eliminare perché non credono in
Dio e perché usi a costumi indegni come quello di scambiarsi le
mogli (variante asiatica del mito occidentale del comunista
mangiatore di bambini).
Non pensate che The
Look od Silence sia
un sequel di The
Act of Killing,
benché lo presupponga. Il
protagonista Adi è un giovane indonesiano che svolge la professione
di optometrista.
Vuole aiutare le persone a vedere meglio. Professione palesemente
metaforica, la sua, soprattutto dal momento che suo fratello
Ramli è tra i trucidati nella strage dello Snake River (si
uccideva a colpi di accetta o machete, modello catena di montaggio;
nel caso del duro a morire Ramli, il colpo fatale fu il taglio del
pene, seguito dall'annegamento nel fiume) e che sua madre attende una
vendetta che dovrà prima o poi consumarsi, mentre accudisce un
marito demente e cieco, ridotto pelle e ossa, che – completamente
perduto in sé stesso (casuale quanto fortunata metafora: perso in
una vita e in una storia che non riconosce più) – pensa di avere
16 o 17 anni. «Apri gli occhi, papà», lo invita Adi. «Vedo molto
poco... Mi sembra di vedere della luce.» Ma è solo un momento. Al
suo ultimo apparente risveglio, mentre si sposta restando seduto con
le gambette smilze come un bimbo senza madre né padre, le sue parole
sono: «Dove sono? Sono a casa di qualcun altro. Come ci sono
arrivato? Sono a casa di un estraneo. Mi picchierà».
L'Indonesia
non è solo irriconoscibile. È un pericolo e una minaccia
persistente. Lo è per Adi (tra gli altri), che porta su di sé
il peso di essere il fratello di un giovane oppositore torturato e
ucciso e il fardello opprimente di abitare in un villaggio come
tanti, dove risiedono anche coloro che noi chiameremmo "criminali
di guerra". Possono aver fatto parte dei Commando Aksi, e magari
occupare ruoli di potere, quando non siedono da decenni all'Assemblea
Legislativa.
Come
si può vivere circondati dal silenzio e dai carnefici dei propri
familiari? Ci sono molti Adi in Indonesia. Ma il nostro giovane è
entrato in contatto con Oppenheimer ai tempi delle riprese di The
Act of Killing, che ha voluto vedere. Il regista e il giovane
sono diventati amici. Ed è nato The Look of Silence.
Adi
va di casa in casa facendo domande a vittime, testimoni, burocrati,
assassini, mandanti della strage dello Snake River che ha
condizionato tutta la sua esistenza. La videocamera di Oppenheimer lo
segue. Il
silenzio sugli anni cruenti del regime di Suharto regna ovunque:
in chi ha sofferto la perdita dei propri cari («Perché ricordare,
se ricordare mi spezza solo il cuore?»), in chi è stato vittima
(«Non voglio ricordare»), in chi nega di sapere (come lo zio
secondino, ennesimo ingranaggio nella versione indonesiana della
burocrazia totalitaria di ascendenza kafkiana e memoria arendtiana),
in chi - magari con un gran sorriso sulle labbra - dice «Silenzio. O
succederà ancora», in chi si gode la poltrona conquistatasi
assecondando ordini provenienti dall'alto (e i cui simili abbiamo
visto e ascoltato difendersi, con identiche motivazioni ma con minore
protagonismo o atteggiamento di scherno, magari provando o fingendo
rimorso, al Processo di Norimberga o nei tribunali organizzati dalla
Commissione per la verità e la riconciliazione nel Sudafrica
post-apartheid). In Indonesia il silenzio è imposto e minacciato: «Le
tue domande sono molto più profonde di quelle di Joshua. Non voglio
parlare di politica. Ora devo andare alla moschea». Così un capo
delle "squadre della morte".
Le
motivazioni del silenzio sono molte, dunque. A colpire sono però
soprattutto l'accettazione dell'oblio e l'assuefazione al sonno
della coscienza. Necessario, pare, dove sembra che non sia
possibile fare nulla. Anche Adi, dopo aver posto domande a cui non
sono fornite risposte, tace. Ma parlano i suoi occhi, che non
accettano di non vedere. Pieni di lacrime, rimangono aperti in una
forma strenua (l'unica concessa) di resistenza. Come
nell'inquadratura che lo mostra seduto di lato mentre fissa una
televisione che trasmette le riprese di The Act of Killing.
Un'inquadratura che, nel suo delicato e perfetto equilibrio tra
realismo e potente astrazione metaforica, simboleggia l'atteggiamento
del giovane e quello del regista stesso.
Dicono molte parole, invece, i carnefici-attori:
c'è chi si vanta di aver raccontato in un libro con tanto di
illustrazioni la strage dello Snake River («È un fatto storico!»),
o di aver bevuto il sangue delle vittime per non impazzire e perché
– dopo quello – si può fare tutto, o c'è chi spiega come è
fatto l'interno di un seno perché lui l'ha visto quando lo ha
tranciato dal corpo di una donna.
La
videocamera di Oppenheimer registra lo sguardo del silenzio:
i volti, i gesti e gli occhi di chi tace (angosciati o inquietanti,
grezzi o sofferenti, macerati o viscidi, disonesti o ancora
traumatizzati); i corpi, anche esposti nella loro più cruda
intimità, che portano inscritto su di sé il dolore. E ci propone
uno sguardo sul silenzio che regna in dialoghi che tali non sono.
Risultano straniati e stranianti. Raccontano il non voler né sapere
né raccontare.
Grazie a The Look of Silence,
l'occhio può vedere il silenzio. La camera di Oppenheimer è la
protesi dell'anima inquieta di Adi. E mostra ben più che le
conseguenze di una tragedia storica contingente. Il suo sguardo ci
mette sotto gli occhi, e in modo feroce, la complessità e insieme
la banalità sconcertante (dove la coscienza sia ancora viva)
dell'umanità e della condizione umiliante a cui essa può ridursi in
situazioni estreme. Di quelle che sembrano obbligare all'immobilità,
pena una qualche forma di perversa punizione.
Quale
peso possono allora avere valori quali la responsabilità e
sentimenti come il rimorso? Oppenheimer risponde col suo film, che più di
un punto caldo l'ha toccato. Nei
titoli di coda abbondano gli "Anonymous". Adi ha dovuto
abbandonare il suo villaggio. Il regista non può più entrare in
Indonesia.
Ma
noi possiamo vedere il silenzio
e oltre il silenzio, grazie a un film raffinato e finemente
stilizzato, giocato su parallelismi e antitesi, e sul miracolo di una
sinestesia che si fa azione per la coscienza. Un'azione attivata
anche dai camion militari che avanzano a inizio film e
ancora sfilano, sempre immersi in un cupo silenzio ma registrati
dalla videocamera del regista, nelle ultime sequenze di The
Look of Silence. E così il silenzio è infranto.
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