martedì 16 settembre 2014

Docufilm - “The Look of Silence” di Joshua Oppenheimer

The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, vincitore del Gran Premio della Giuria alla 71a Mostra del Cinema di Venezia, è molto più che un mero documentario di denuncia. Il regista statunitense punta di nuovo lo sguardo sull'Indonesia protagonista del suo precedente e pluripremiato The Act of Killing, in cui i responsabili degli eccidi perpetrati sotto il regime di Suharto erano arruolati come interpreti di uno spettacolo grottesco: la rappresentazione delle stragi di cui erano stati responsabili e in cui erano chiamati a giocare sia il ruolo dei carnefici sia quello delle vittime. The Act of Killing era il risultato di un lavoro costato cinque anni di riprese (dal 2005 al 2010) e che ha convinto tanto il pubblico quanto la critica.

 Con The Look of Silence Oppenheimer torna agli anni bui delle assassini di massa avvenuti nel 1965 in un'Indonesia controllata dagli U.S.A. «Dovrebbero regalarci un viaggio in America», dice uno dei “soldati del popolo” manovrato dall'abile e sperimentata propaganda americana, che ha trasformato gli oppositori del regime in “comunisti”, quindi in uomini da eliminare perché non credono in Dio e perché usi a costumi indegni come quello di scambiarsi le mogli (variante asiatica del mito occidentale del comunista mangiatore di bambini).

Non pensate che The Look od Silence sia un sequel di The Act of Killing, benché lo presupponga. Il protagonista Adi è un giovane indonesiano che svolge la professione di optometrista. Vuole aiutare le persone a vedere meglio. Professione palesemente metaforica, la sua, soprattutto dal momento che suo fratello Ramli è tra i trucidati nella strage dello Snake River (si uccideva a colpi di accetta o machete, modello catena di montaggio; nel caso del duro a morire Ramli, il colpo fatale fu il taglio del pene, seguito dall'annegamento nel fiume) e che sua madre attende una vendetta che dovrà prima o poi consumarsi, mentre accudisce un marito demente e cieco, ridotto pelle e ossa, che – completamente perduto in sé stesso (casuale quanto fortunata metafora: perso in una vita e in una storia che non riconosce più) – pensa di avere 16 o 17 anni. «Apri gli occhi, papà», lo invita Adi. «Vedo molto poco... Mi sembra di vedere della luce.» Ma è solo un momento. Al suo ultimo apparente risveglio, mentre si sposta restando seduto con le gambette smilze come un bimbo senza madre né padre, le sue parole sono: «Dove sono? Sono a casa di qualcun altro. Come ci sono arrivato? Sono a casa di un estraneo. Mi picchierà».


L'Indonesia non è solo irriconoscibile. È un pericolo e una minaccia persistente. Lo è per Adi (tra gli altri), che porta su di sé il peso di essere il fratello di un giovane oppositore torturato e ucciso e il fardello opprimente di abitare in un villaggio come tanti, dove risiedono anche coloro che noi chiameremmo "criminali di guerra". Possono aver fatto parte dei Commando Aksi, e magari occupare ruoli di potere, quando non siedono da decenni all'Assemblea Legislativa.

Come si può vivere circondati dal silenzio e dai carnefici dei propri familiari? Ci sono molti Adi in Indonesia. Ma il nostro giovane è entrato in contatto con Oppenheimer ai tempi delle riprese di The Act of Killing, che ha voluto vedere. Il regista e il giovane sono diventati amici. Ed è nato The Look of Silence.

Adi va di casa in casa facendo domande a vittime, testimoni, burocrati, assassini, mandanti della strage dello Snake River che ha condizionato tutta la sua esistenza. La videocamera di Oppenheimer lo segue. Il silenzio sugli anni cruenti del regime di Suharto regna ovunque: in chi ha sofferto la perdita dei propri cari («Perché ricordare, se ricordare mi spezza solo il cuore?»), in chi è stato vittima («Non voglio ricordare»), in chi nega di sapere (come lo zio secondino, ennesimo ingranaggio nella versione indonesiana della burocrazia totalitaria di ascendenza kafkiana e memoria arendtiana), in chi - magari con un gran sorriso sulle labbra - dice «Silenzio. O succederà ancora», in chi si gode la poltrona conquistatasi assecondando ordini provenienti dall'alto (e i cui simili abbiamo visto e ascoltato difendersi, con identiche motivazioni ma con minore protagonismo o atteggiamento di scherno, magari provando o fingendo rimorso, al Processo di Norimberga o nei tribunali organizzati dalla Commissione per la verità e la riconciliazione nel Sudafrica post-apartheid). In Indonesia il silenzio è imposto e minacciato: «Le tue domande sono molto più profonde di quelle di Joshua. Non voglio parlare di politica. Ora devo andare alla moschea». Così un capo delle "squadre della morte".

Le motivazioni del silenzio sono molte, dunque. A colpire sono però soprattutto l'accettazione dell'oblio e l'assuefazione al sonno della coscienza. Necessario, pare, dove sembra che non sia possibile fare nulla. Anche Adi, dopo aver posto domande a cui non sono fornite risposte, tace. Ma parlano i suoi occhi, che non accettano di non vedere. Pieni di lacrime, rimangono aperti in una forma strenua (l'unica concessa) di resistenza. Come nell'inquadratura che lo mostra seduto di lato mentre fissa una televisione che trasmette le riprese di The Act of Killing. Un'inquadratura che, nel suo delicato e perfetto equilibrio tra realismo e potente astrazione metaforica, simboleggia l'atteggiamento del giovane e quello del regista stesso.

Dicono molte parole, invece, i carnefici-attori: c'è chi si vanta di aver raccontato in un libro con tanto di illustrazioni la strage dello Snake River («È un fatto storico!»), o di aver bevuto il sangue delle vittime per non impazzire e perché – dopo quello – si può fare tutto, o c'è chi spiega come è fatto l'interno di un seno perché lui l'ha visto quando lo ha tranciato dal corpo di una donna. 

La videocamera di Oppenheimer registra lo sguardo del silenzio: i volti, i gesti e gli occhi di chi tace (angosciati o inquietanti, grezzi o sofferenti, macerati o viscidi, disonesti o ancora traumatizzati); i corpi, anche esposti nella loro più cruda intimità, che portano inscritto su di sé il dolore. E ci propone uno sguardo sul silenzio che regna in dialoghi che tali non sono. Risultano straniati e stranianti. Raccontano il non voler né sapere né raccontare.

Grazie a The Look of Silence, l'occhio può vedere il silenzio. La camera di Oppenheimer è la protesi dell'anima inquieta di Adi. E mostra ben più che le conseguenze di una tragedia storica contingente. Il suo sguardo ci mette sotto gli occhi, e in modo feroce, la complessità e insieme la banalità sconcertante (dove la coscienza sia ancora viva) dell'umanità e della condizione umiliante a cui essa può ridursi in situazioni estreme. Di quelle che sembrano obbligare all'immobilità, pena una qualche forma di perversa punizione.

Quale peso possono allora avere valori quali la responsabilità e sentimenti come il rimorso? Oppenheimer risponde col suo film, che più di un punto caldo l'ha toccato. Nei titoli di coda abbondano gli "Anonymous". Adi ha dovuto abbandonare il suo villaggio. Il regista non può più entrare in Indonesia.

Ma noi possiamo vedere il silenzio e oltre il silenzio, grazie a un film raffinato e finemente stilizzato, giocato su parallelismi e antitesi, e sul miracolo di una sinestesia che si fa azione per la coscienza. Un'azione attivata anche dai camion militari che avanzano a inizio film e ancora sfilano, sempre immersi in un cupo silenzio ma registrati dalla videocamera del regista, nelle ultime sequenze di The Look of Silence. E così il silenzio è infranto.




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