Ho avuto l’occasione di
incontrare Gianni Biondillo al “Tagliere letterario”, il
salottino culturale del Biografilm
Festival. Il noto autore di gialli era a
Bologna per la presentazione
del suo ultimo libro, L'Africa non esiste (Guanda,
2014), che racconta cinque viaggi compiuti dallo scrittore
rispettivamente in Uganda, Ciad, Eritrea, Etiopia ed Egitto al
seguito di alcune ONG.
Il titolo è palesemente
provocatorio: a non esistere è lo stereotipo di Africa diffuso
dai mass media. L'Africa
esiste eccome, e soprattutto esistono le persone che la abitano.
L'Africa non esiste è dunque un libro contro i luoghi
comuni, contro i pregiudizi, contro la malattia del «buonismo», ma
anche un diario sui generis delle scoperte e
degli incontri che l'autore ha sentito la necessità di
condividere con noi. Con uno sguardo sensibile attento e attento,
autoironia e profonda umanità, Biondillo ci invita a riflettere,
mentre ci narra di quella «piccola Italia» che è Asmara, del lusso
in cui vivono gli alti commissari ONU rispetto ai volontari
entusiasti, dell'incantata natura africana e delle violenze inflitte
a bambini soldati come Geoffrey e a spose bambine come Nighty. «Ora
so che dell’Africa non sapevo niente, e che ora ne so anche meno»,
ha affermato lo scrittore. Non ho resistito a porgli qualche domanda.
Che significato assume
per lei il viaggio?
La verità è che io sono
un autore di libri di viaggio. Molti pensano che io scriva romanzi
gialli. In realtà io ho sempre e soltanto scritto libri di viaggio.
Il mio personaggio, l'ispettore Ferraro, in sostanza si muove per la
città e racconta luoghi. Ci sono romanzi in cui i personaggi si
muovono lungo lo stivale italiano. Ho fatto il giro delle tangenziali
di Milano a piedi e ci ho fatto un libro.
Perché io sono un architetto di formazione. Quindi il paesaggio è
sempre il protagonista dei miei libri. Ovviamente ogni volta con
modalità differenti. Anzi, se dovessi trovare una cosa che tiene
insieme tutti i miei libri, credo che “viaggio” sarebbe la parola
giusta.
Nei suoi romanzi vi è
un'attenzione molto forte nei confronti della realtà e delle
problematiche sociali, per esempio la disoccupazione. Penso a Cronaca
di un suicidio (edito sempre da Guanda). Immagino
che abbia portato con sé questo “sguardo” anche in Africa.
Certo. I paesaggi che
incontro non sono solo fisici, ma anche antropologici. Sono storie di
persone con i loro sogni, con le loro disperazioni. Con la vita. Ogni
scrittore vorrebbe cercare di restituire vita con le parole che
scrive. Poi, l'attenzione agli aspetti sociali un po' ha a che fare
con la mia biografia personale. Io sono figlio di povera gente, di
due analfabeti; sono cresciuto in un quartiere complesso qual è
Quarto Oggiaro. Conosco molto bene le vite ai margini, nelle
periferie mentali oltre che fisiche.
Certe sue idee
sull'Africa sono state contraddette dalla realtà che ha incontrato?
Continuamente. Come lo
sarebbe per la maggior parte degli italiani, che nulla sa di ciò che
succede. Guarda solo la televisione, che è spazzatura, ed è un
peccato perché potrebbe essere un mezzo di diffusione culturale
straordinario. La gente non sa, anche perché basta confrontare un
quotidiano italiano con un quotidiano straniero, francese o tedesco,
per capire la differenza. Ho fatto questa esperienza proprio andando
in Africa. Avevo fra le mani un quotidiano nazionale francese e uno
italiano. Il confronto era disarmante. Dieci, quindici pagine di
politica estera in quello francese, una pagina in quello italiano, e
si parlava dell'America. Reportage sulle banlieues di Parigi
in quello francese, dall'altra cinque o sei pagine di cronaca nera.
Poi il Paese non legge. Queste sono le condizioni di partenza.
Questo libro è nato
strada facendo. Non sapevo, mentre stavo viaggiando, che lo avrei
pubblicato. Ma tornavo e magari pubblicavo qualcosa in versione
ridotta. Piano piano si è autoformato. Si è scritto da solo. Era un
libro in qualche modo necessario.
Perché necessario?
Perché certi temi hanno
bisogno di essere raccontati in questo momento. Ci sono ragazzi che
fanno una vita infernale per raggiungere le nostre coste sapendo che
possono morire, ma nessuno si chiede perché. Quando abbiamo smesso
di chiederci perché, abbiamo smesso di essere umani.
Nel suo libro lei ci
ricorda che la colonizzazione italiana in Africa risale alla fine
dell'Ottocento, anche se nell'immaginario della maggior parte degli
italiani è associata alla figura di Mussolini.
Certo. Massawa è stata
la prima colonia italiana e risale alla fine dell'Ottocento. E poi
c'è Asmara, dove ho visto edifici in perfetto stile sabaudo. Quando
è arrivato l'Impero mussoliniano, la città è esplosa, ma noi siamo
in Africa dall'Ottocento. Il fatto che ce lo siamo dimenticati mi
preoccupa. Sono andato al Cimitero Italiano di Asmara, uno dei luoghi
più tristi e potenti che mi sia mai capitato di incontrare, perché
ci sono storie di italiani che hanno cercato un sogno senza sapere
che, attraverso il loro sogno, stavano facendo del male a qualcun
altro. Però hanno portato le loro speranze. È un posto che colpisce
veramente. Anche il fatto che ci sia l'erba un po' alta, che il
cimitero sia un po' abbandonato... Quanti italiani sono sepolti in
terra straniera e noi nemmeno lo sappiamo?
Cosa l'ha
particolarmente colpita in Africa, al limite dello shock?
È difficile scegliere.
Però ho passato una giornata insieme a un ex-bambino soldato del
Nord dell'Uganda che mi ha raccontato la sua calata all'inferno. E lì
capisci quanto l'uomo possa essere perverso. Prendere un bambino di
nove anni, mettergli in mano un'arma, sterminargli la famiglia
davanti agli occhi... E questo è accaduto in Uganda e sono convinto
che potrebbe accadere domani in qualunque parte del mondo. Non è una
“cosa africana”.
Una storia o un
incontro che non ha raccontato?
Ce ne sono tantissimi.
Per esempio l'incontro con un medico ugandese. All’ospedale in cui
lavora avevano regalato un macchinario. Lui me lo fa vedere quasi
dispiaciuto e mi sono stupito. Lui mi spiega che quel macchinario,
acquistato con una raccolta fondi in provincia di Bergamo, non serve
lì. Servono altre cose, per esempio delle viti o delle lampadine,
perché, se si rompe qualche cosa, non sanno come aggiustarla. Per
l'Africa il buonismo è una malattia. Nelle note del libro poi
accenno al viaggio sulle isole Dahlak di una bellezza straziante, con
la più grande biodiversità al mondo... Molte di queste cose, me le
tengo nel cuore. Gente incontrata per strada...
Non si è mai trovato
in situazioni “al limite”, di quelle in cui ai giornalisti viene
chiesto di tacere?
Continuamente. Ma io non
sono un giornalista e me ne frego. E poi io sono un narratore. Non
vado alla ricerca della notizia, ma dell'umano.
Ha ascoltato storie
che ha pensato fossero troppo forti per il lettore e che per questo
ha scelto di non inserire nel suo libro?
No. Non mi autocensuro
mai in questo senso.
Dal punto di vista
letterario, cosa le hanno dato i suoi viaggi in Africa?
Ho potuto scrivere un
romanzo. Senza i miei viaggi in Africa I materiali del killer non
sarebbe mai nato. Poi questo libro è narrazione. Ho usato la lingua
del narratore, non del giornalista. Non è un giallo, non ci sono
morti, colpi di scena, storie d'amore. Ma ci sono colpi di scena,
storie d'amore...
Cosa pensa della
cosiddetta “letteratura migrante” o “della migrazione”?
Finché si continua a
chiamarla letteratura migrante, è letteratura di serie B. Quando
metti qualcosa dentro un genere, l'hai già declassato. Così come
non credo che esistano i gialli. Secondo me, esistono libri belli e
libri brutti, scritti bene o scritti male. Se domani mattina uno
scrittore di origine africana scrive un bel libro in italiano, ha
scritto un bel libro e quindi ha scritto un libro che per la
letteratura italiana è importante.
Ci farebbe qualche
nome?
Non vale, perché poi
faccio torto agli altri. Però esistono talenti veri. Anzi, in questo
momento, data l'esperienza potente che hanno sulle loro spalle,
possono raccontarci come noi non sappiamo più raccontarci. Però
quello che conta è che si scriva bene. La patente di “negro” o
di emigrato o di sofferente o di povero non basta.
Quindi lei non adotta
lo sguardo di chi ritiene la letteratura della migrazione di serie B
perché non sarebbe arricchita dalla nostra tradizione letteraria.
Non sono interessato a
questo modo di ragionare perché secondo me non ha senso. Poi è un
po' come la storia degli immigrati di seconda generazione. Io sono
figlio di un campano e di una siciliana. Cosa sono? Un milanese di
seconda generazione? No, sono un milanese. Tutti i compagni di scuola
delle mie figlie non hanno mai visto il Perù o la Thailandia o lo
Sri Lanka. Sono nate a Milano. Questi sono non-problemi. Igiaba
Scego, che è di origine somala, per me è una scrittrice italiana e
basta. Non mi pongo il problema che sia di origine somala o che abbia
il colore della pelle nero.
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