mercoledì 9 luglio 2014

Intervista a Roberto De Luca, autore di "Adrenalina di porco"

Roberto De Luca torna nelle librerie con Adrenalina di porco. Storia di una banda criminale, edito da Pendragon, dopo il thriller Insospettabili ombre per gli stessi tipi nel 2008. Protagonista è ancora Luca De Robertis, anagramma del nome del suo creatore e, come lui, Maresciallo dei carabinieri. Lo scrittore originario di Mondragone e in servizio a Bologna, dunque, conosce bene il mondo criminale di cui scrive. Il suo giallo dal ritmo scattante e serrato racconta la caccia a una banda dalla «ferocia sadica e pericolosa» denominatasi "Adrenalina di porco", offrendoci anche occasioni di riflessione sull'idea di legalità.

Perché scrive?
Scrivere per me è un divertimento. E mi serve per non far ricadere nella mia vita privata quello che accade al lavoro. Anche se è nato tutto per gioco, a partire dal nome del mio personaggio. Ma pensi a quello che viene prima. Tutti i giorni, dalla mattina alla sera, ho a che fare con orrori di altre persone che vengono da me oppure che leggo nei fascicoli. Quando succede qualcosa, apro le porte della famiglia di qualcuno senza conoscerlo ed entro a far parte della sua storia. Ma non è una storia bella. Comunque da lì parte tutto un mondo da scoprire. Si va dalla semplice lite condominiale ai reati contro la famiglia. E quando per esempio una donna ti racconta quello che ha subito da un uomo... Se lo scrivessi in un libro, non ci crederebbe. È la realtà che supera la fantasia. Quindi è molto meglio scrivere di fantasia che scrivere la realtà. Se si scrive di realtà, c'è il rischio che ti dicano: hai lavorato troppo di fantasia. La mia scrittura è, quindi, molto collegata al mio lavoro, sia perché molti spunti vengono da lì, sia perché è il mio modo per evadere dalla realtà. È una finzione verosimile in cui stavolta io ho il diritto di vita e di morte sui miei personaggi.

Quindi, scrivere per lei ha anche una funzione catartica: può far avvenire nella finzione quello che non avviene nella realtà. Però non c’è un lieto fine. Perché?
Quanti omicidi rimangono irrisolti? Un lieto fine non poteva esserci.

L’umorismo e l'ironia con cui racconta la vita in caserma e i rapporti tra i colleghi sono forse un antidoto alla troppo frequente mancanza di giustizia?
Certo. Il sorriso aiuta quando sai che forse non arriverai alla verità.

Quando ha iniziato a scrivere?
Dieci o dodici anni fa. Perché io sono lentissimo a scrivere.

In Adrenalina di porco si avverte molto l'influenza dei fumetti. Penso al titolo, ma anche al ritmo accelerato con cui si succedono le scene.
Sì. Io leggo molti fumetti e li colleziono. Secondo me, un fumetto offre una sintesi straordinaria di una storia. In quelle 50 o 60 pagine c'è tutto. Devi guardare l'immagine, le nuvole, le espressioni... Questo mi ha incuriosito del fumetto. Pensi che più di una persona mi ha chiesto perché il romanzo è così corto. Potevo allungarlo, ma avrei snaturato la mia idea di narrazione e il filo conduttore si sarebbe perso, inserendo una storia dentro un'altra storia dentro un'altra storia. La mia è la sintesi del fumetto. Non puoi perderti nella storia d'amore tra il capo banda e la sua cubista o smarrisci il senso, cioè che Darko è stato arrestato non perché ha sbagliato o perché i carabinieri sono stati bravi, ma perché è stato tradito.

Come le è venuto il titolo, e quindi il nome della banda?
Non volevo creare la solita banda di persone che fanno tre o quattro colpi insieme e poi si separano. La mia banda nasce come una comune del terrore. I suoi componenti perdono la loro identità per riuscire a fare i soldi per espatriare. Poi volevo un nome che restasse in mente e identificasse la banda. Come se dicessero: siamo noi, vi sfidiamo, ma saremo tanto bravi che non riuscirete a prenderci. E infatti non sono gli sbirri a trovarli.

Chi è il Maresciallo De Robertis?
È un uomo come tutti. Con la paura di sbagliare e di rimanere solo. Soprattutto, con un forte senso della legalità. È una persona che ama la vita a modo suo, lontano dagli stereotipi. Non apprezza nemmeno la tecnologia. È uno sbirro vecchio stile, che lavora d'intuito e d'intelligenza, a differenza degli investigatori più moderni come Guerra, convinto che la tecnologia permetta di risolvere i casi.

Essendo ambientato a Bologna, sorge spontaneo il ricordo della banda della Uno Bianca. Ma viene anche da pensare alle molte bande di cittadini extra-comunitari o dell'Europa dell'Est. "Adrenalina di porco", però, è composta da italiani e l'accento slavo di Darko è un falso. C'è in questa scelta una volontà di "correggere" la percezione dei lettori nei confronti delle bande?
Be', l'accento slavo l'ho incontrato nella realtà, e apparteneva a un italiano. Da lì ho preso lo spunto per Darko. In effetti, sembra che i colpi in villa li facciano solo gli stranieri. E non è così.

Quanto altro delle sue esperienze personali ha utilizzato nel libro? Penso anche alla presenza delle donne nell'Arma.
Io lavoro in una sezione in cui ancora non ci sono donne. Ma mi è capitato di conoscerne una ed era lei. Era la Falcone di Adrenalina di porco. "Dov'eri?", avrei voluto chiederle. Poi c'è la vita in caserma, rispecchiata abbastanza fedelmente.

Nel suo libro c'è spazio anche per la mafia cinese.
Sì. In questo caso mi sono affidato alle cronache e a "conoscenze all'interno". Ma è soprattutto elaborazione romanzesca.

Indirettamente, parla del regime carcerario. Senza il carcere, la banda non sarebbe nata. Insomma, in carcere si diventa quello che non si era diventati fuori.
Esatto. Il carcere dovrebbe essere un luogo di riqualificazione, ma non lo è. E Darko sa che non lo è. Quindi sceglie dallo scaffale carcerario le persone di cui ha bisogno.

C'è qualcosa che è stato detto su Adrenalina di porco con cui è in disaccordo? Vorrebbe ribattere ora? Del ritmo veloce ispirato alla sintesi del fumetto abbiamo già parlato.
Da una parte del pubblico femminile mi è stato detto che De Robertis manca di una stabilità sentimentale. Ma è la sua vita a rendergli impossibile un legame solido e duraturo. Dal punto di vista degli amanti del puro giallo americano, ci sarebbero pochi inseguimenti e sparatorie. Ma nella realtà l'indagine si fa con la testa, non con le pistole. E poi fare il pistolero modello Tex Willer non è facile. Ed è un caso estremo.

Hanno anche detto che De Robertis è un comunista.
Sì. Ma non è così. Prima di tutto io sono politicamente agnostico, perché la politica è finita da tanti anni. Poi, quello che chiamano “comunismo” in De Robertis non è altro che il suo senso di legalità. Il senso della legalità viene da noi e non può esserci insegnato dalla politica. E il principio della legalità mio e di De Robertis include un principio di uguaglianza. Quando fermi una persona, pensi di avere più diritti di lui, perché lui è il criminale e tu sei la guardia. L'ultima volta che io mi sono trovato in una situazione simile, la prima cosa che ho fatto è chiedere alla persona se aveva bisogno d'acqua o di un bagno. Deve esserci rispetto.

Questo spiega l'umanità e la comprensione con cui ritrae i personaggi e le loro relazioni.
Vede, i reati, dagli omicidi seriali al furto, possono essere commessi da chiunque. Non c'è bisogno di essere slavo per rapinare una villa o di essere nordafricano per spacciare droga. Tra il male e il bene c'è un filo sottile e ci vuole un attimo per scavalcarlo. Dal bene si passa facilmente al male. Ma io sono convinto che, anche se è più difficile, dal male si può passare al bene.

Prima di concludere, vorrei sapere se è stato difficile trovare un editore.
Non direi. Ho fatto una ricerca di mercato in zona Bologna e ho visto che c'era una collana della Pendragon dedicata ai thriller. Ho spedito un'email e mi hanno chiesto di inviare una sinossi. Io ho deciso di presentarmi di persona. Credo di aver anche portato un calendario dell'Arma. Dopo sei, sette mesi è arrivata la pubblicazione. Comunque voglio dire che la mia più grande soddisfazione non è la pubblicazione in sé, ma lasciare qualcosa al lettore.

Ha in cantiere un nuovo lavoro?
Sì. Sono dei racconti ambientati sempre a Castello di San Petronio, dove lavora De Robertis. Scriverò di scomparse di minori, della dipendenza dalle slot machine, della vita in caserma... Per far capire come funziona davvero la vita di un carabiniere. Molti hanno in mente don Matteo. Ma non ci sono omicidi tutti i giorni. Io, dove abita don Matteo non andrei mai a vivere. Deve esserci un'incidenza pazzesca di omicidi lì...

Vuole aggiungere qualcosa?
Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. 

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