Negli
anni che vedono l'Italia uscire dal secondo conflitto mondiale e
faticosamente intraprendere il suo percorso di crescita economica e
di difficilissima stabilizzazione politica, negli stessi anni che
vedono affermarsi progressivamente vari sperimentalismi letterari
(vuoi sulla scia della linea lombardo-gaddiana, vuoi nati in seno al
postmoderno, vuoi legati al Gruppo '63), fu in gestazione un'opera
dai caratteri assolutamente originali e oggi pressoché unanimemente
riconosciuta come un capolavoro. Un primo assaggio ne diede la
rivista «Il Menabò»: nel 1960 pubblicò i primi due capitoli del
romanzo – allora titolato I
giorni della fera
–
quando
già critici e letterati del calibro di Montale, Zavattini e e
Vittorini avevano segnalato il valore del progetto. Ne era autore lo
scrittore messinese Stefano D'Arrigo. Dopo un accanito ed estenuante
lavoro di revisione, l'opera sarebbe stata pubblicata nel 1975 col
titolo definitivo Horcynus
Orca.
I lettori potevano finalmente sfogliare le oltre 1200 pagine di
un'epopea moderna redatta in una lingua altamente sperimentale che,
in un panorama complessivamente teso allo scarto rispetto alla norma,
spiccava per l'unicità della sua proposta.
Credo
tuttavia che pochi abbiano letto Horcynus
Orca di
Stefano D'Arrigo. La lingua e la mole dell'opera sono stati potenti
deterrenti. Pure, basterebbe arrendersi all'impatto certo
inizialmente forte della prosa darrighiana e, dopo poche pagine, ci
si troverebbe immersi in un mondo fantastico di prepotente
personalità.
Il
romanzo è incentrato sulla figura del giovane 'Ndrja Cambria,
«nocchiero semplice della fu regia Marina»1,
che torna da Napoli alla natia Cariddi dopo l'8 settembre del '43. Il
suo viaggio è ricco di incontri e riflessioni, svolti a episodi
chiusi, come nei canoni del genere epico, e avrà come esito la
morte. Il romanzo racconta infatti l'impossibilità del ritorno, di
una positiva appartenenza a una comunità, quella comunità che era
uno dei cardini, insieme alle tradizioni e ai valori di cui era
portatrice, dell'epopea classica. Viene così recuperato e
contemporaneamente negato dall'interno il topos
del nostos.
Se l'uomo contemporaneo è un perenne esule e isolato, il riutilizzo
della nobile tradizione epica ne sottolinea antifrasticamente la
condizione, ed è al contempo àncora all'altrimenti disperante
hölderliniana perdita dell'unità. Nello stesso tempo, l'operazione
di D'Arrigo si propone, secondo modalità frequenti nel '900, la
rivisitazione di un genere in modo distaccato, con quell'ironia e
quella resa parodiata che dicono, esplicitamente, irriconciliabili
due visioni del mondo.
Il
ritorno di 'Ndrja è negato non solo dall'esito mortale del suo
viaggio, ma anche, più profondamente, dal fatto di trovare cambiati
sé e i suoi compaesani, perduta la condivisione di valori creduti
eterni, venute meno le naturali prevedibilità e interpretabilità
del proprio e dei loro atteggiamenti. Il gesto e la parola non sono
più espressione diretta del pensiero ma lo nascondono o lo mostrano
deviato dall'originario. E l'orca – fantastico, mitico monstrum
–
iperbolicamente simboleggia i mutamenti avvenuti e i conseguenti
pericoli in agguato. È significativo, a questo riguardo, che il
ritorno di 'Ndrja coincida con l'arrivo dell'orca sullo Stretto.
'Ndrja, cioé, arriva con l'orca; è in parte l'orca. «Dovette
essere come se per davvero si fosse scambiato di parte […] ma con
un altro se stesso, straniato da lui, da quello di prima, di prima
della guerra, con lui marinaio, per esempio, con lui marinaio di
quegli anni di guerra»2,
si legge. L'orca anzi fa sì che 'Ndrja prenda coscienza del
mutamento catastrofico e innaturale avvenuto in lui e nella sua
comunità, e che è necessario affrontare.
Come
è da affrontare il moltiplicarsi di impasses
al ritorno per fatalità derivante da un colpa (o da un insieme di
colpe, morali ed etiche, che coinvolgono la Sicilia dell'autore ma
non solo, dato che hanno portato a quella concentrazione di orrori
che è stato il secondo conflitto mondiale da cui 'Ndrja cerca invano
di tornare).
La
negazione del nostos
si articola del resto anche in una pluralità
di motivi e scelte narrative.
Primo
tra tutti, l'impossibilità all'azione. L'immobilità della società
italiana e siciliana rende inefficace ogni tentativo di
soluzione-evoluzione così che l'epica moderna non è più racconto
di vicende e gesta eroiche e memorabili, bensì delle avventure reali
e psichiche di un soggetto destinato alla sconfitta. Il passaggio
all'azione è transito verso la morte.
Le
prime due sezioni del romanzo si svolgono di notte, e «la notte è
femmina e fa chiacchiere, il giorno è maschio e porta il fatto»3;
la terza narra il tentativo di guarigione di 'Ndrja, esiziale.
Del
resto, il ritorno del giovane cariddoto non si è in realtà mai
verificato. In luogo del suo inserimento nella comunità, si narra
l'arrivo dell'orca. Coincidenza e sostituzione significanti, se
l'orca nel romanzo è simbolo della morte e della guerra. Per cui
l'orca è sì antagonista dell'eroe ma anche suo specchio e alter
ego.
Non si esce intoccati e incolpevoli dalla guerra, e delle proprie
decisoni si deve pagare lo scotto.
Persino
il padre non riconosce o non vuole riconoscere Ndrja, di cui è così
negata l'identità di figlio, di appartenente alla cellula familiare.
La colpa che Caitanello gli addebita è di essere partito per la
guerra lasciandolo solo: la guerra non è più quella affrontata con
orgoglio e coraggio dalla tradizione epica, ma una guerra sentita,
oltreché come dannosa, come estranea alla vita comunitaria.
Anche
l'incontro con la fidanzata Marosa è posticipato volontariamente da
'Ndrja. Un po' di trama: il giovane riesce a sbarcare dalla Calabria
in Sicilia grazie al misterioso aiuto di una “femminota”, Ciccina
Circé (esplicito richiamo alla classica Circe), molle e liquida come
il mare, inconoscibile come un essere di un altro mondo o un simbolo,
sorta di traghettatrice acherontea (l'obolo è, in questo caso,
l'amore), avvicinata a una figura materna.
Sulla spiaggia dove
'Ndrja e Ciccina Circé hanno appena consumato e la seconda sta
preparandosi a varare, arriva donna Rosalia, madre di Marosa. È
convinta di aver sentito delle voci di soldati morti che chiedono
preghiere; voci di fantasmi. Il giovane è scambiato per un morto.
Del resto è come se venisse da un purgatorio essendovi fortissime
analogie di ambiente tra questo e il paesaggio e gli incontri
calabresi. Marosa, nel frattempo, raggiunge la madre, e 'Ndrja si
nasconde. Come ha tradito suo padre, ha tradito Marosa. L'incontro
con la ragazza avverrà successivamente, ma sarà raccontato come
ricordo dello stesso. Il ritorno si tinge dei colori dell'irrealtà o
comunque del già avvenuto. Positivamente, nulla può più avvenire.
Tutto è già accaduto (e la colpa non si cancella) o dovrà accadere
(per ineluttabile conseguenza).
E
dovrà accadere che 'Ndrja muoia. I miti dell'Ulisse omerico e di
Enea (il protagonista di Horcynus
Orca
voleva rifondare la sua perduta, corrotta Cariddi) si fondono con
quello dell'Ulisse dantesco. È impossibile opporsi alla fatale
perdita dell'armonia originaria. 'Ndrja tenta infatti di salvare la
sua terra col progetto di comprare una palamitara per far riprendere
ai cariddoti il loro misero ma dignitoso e tradizionale mestieruzzo
di pescatori, ma fallisce. Per ottenere i soldi deve prestarsi a una
regata organizzata tra una ciurma messinese, una inglese e una
americana. È una regata figlia della guerra, a causa della quale
l'integrità originaria è perduta. E quando, durante la prova (non
si tratta ancora della regata; nemmeno questa accadrà, accadrà solo
la morte), preso dal trasporto, incita i compagni a vogare («ma
'Ndrja ancora faceva, fece: oooh... oh... poiché andare per lui
doveva essere una felicità di quelle alle quali non si resiste
perché è come se il cuore scoppiasse in petto e scoppierebbe, solo
se si tentasse di soffocare quella ribellione, quei palpiti grossi di
gran vita a precipizio»4),
non si accorge di superare la linea prescritta (dagli alleati).
«'Ndrja fece per alzare gli occhi alla immensa, allarmante fiancata
della portaerei, e fu come se porgesse volontariamente la fronte alla
pallottola, che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che
lo gettò per sempre nelle tenebre»5.
Il finale ritrovamento del senso antico della propria vita coincide
con la morte (vedi la sintomatica ripresa del verbo “scoppiare”).
A essere irraggiungibile non è più l'Ignoto, ma ciò che un tempo
era noto; o si è in esilio o si muore.
Senonché
non è la fine. Tutto muta, nell'universo darrighiano, in
un'instancabile dialettica vita-morte. La degradazione dei pescatori,
incapaci di opporsi all'orca, ha il suo contrario nella vittoria
delle “fere” sulla stessa. Fere che hanno «quella particolarità
della coda, una specialità che solo la fera ha in comune con
l'orcaferone, chissà per quale mistero, se poi non hanno
nient'altro, nemmeno un pelo in comune, anzi è chiarissimo che più
diversi di come sono, non si potrebbero immaginare: per non dire
altro, basterebbe dire che quella è la Morte e questa, gran campiona
vitaiola, il suo contrario»6.
I cariddoti si sono trasformati, ma la fera, animale marino archetipo
della forza vitale, resiste: «Era passata la guera, la carneficina,
il mare di sangue, quel grande roncisvalloso concentramento di fere
oceaniche, l'orcaferone, Morte e fetore antico di carogna, ma le fere
erano rimaste; le fere sole»7.
E scoderanno l'orca, castrandola, impedendole di fecondare il mondo.
Come
in un omaggio malinconico a un tempo trascorso e a un'armonia
perduta, il romanzo termina col proposito di seppellire 'Ndrja (rito
dovuto). I suoi compagni continuano a vogare per raggiungere Cariddi
(solo per 'Ndrja, l'eroe del romanzo, la linea non era superabile); e
come in omaggio al mare-madre-vita, così si conclude: «La lancia
saliva verso lo scill'e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli
degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a
colpo di remo, dentro, più dentro dove il mare è mare»8.
La
distanza dal passato è rimarcata anche dalla pervasività della
metamorfosi, frutto di una percezione della realtà come sempre
mutante, instabile, precaria. Così, all'interno di una dialettica di
opposti, questi possono cambiare di segno o “prestare”,
impensabilmente, qualità proprie a qualcosa di radicalmente diverso
da sé. Un personaggio può acquistare tratti o qualità di qualcosa
a lui estraneo o contrario. La problematica decifrazione del reale
che ne deriva impone al protagonista (e al narratore che ne trascrive
le vicende) un mutamento continuo della visione e
dell'interpretazione delle cose. Di tutte le cose, anche attraverso
la rivelazione di una metamorfosi in atto o avvenuta, viene però
anche affermata la sostanziale unità; un'unità moderna tuttavia,
ben lontana da quella classica. Di certo esiste un filo che, palese o
meno, collega tutto l'esistente. Appare, ad esempio, spesso in modo
fulmineo, l'immagine minacciosa dei denti della fera, applicata alle
situazioni e ai personaggi più disparati, a indicare il sempre
possibile riemergere di un'aggressività, di un rancore, di un
violento istinto di sopravvivenza (si tratta qui di un'immagine
talmente pregnante da acquistare quasi i caratteri di un leitmotif).
Dunque, immagini, parole, attributi si rifrangono caleodospicamente
su diversi elementi del romanzo, a rivelare come epifanicamente la
vera natura degli stessi o una loro modificazione e insieme la forte
rete di relazioni a essi sottesa.
La
metamorfosi è insomma indice di una visione del mondo come totalità
in continuo divenire, ma anche segno neo-barocco dell'inconoscibilità
e dell'incessante trasformazione delle cose, cui è possibile
avvicinarsi solo per le infinite approssimazioni raccontate dalla
proliferante, rigogliosa prosa darrighiana.
Horcynus
Orca
è un canto di nostalgia, nella consapevolezza di un presente
tragicamente distante dal mondo mitico in cui un nostos
costruttivo
e un'unità circolare erano ancora concepibili.
1S.
D'Arrigo, Horcynus Orca,
Milano, Mondadori, 1994, p. 1.
2Ibidem,
p. 1132.
3Ibidem,
p. 721.
4Ibidem,
p. 1256.
5Ibidem,
p. 1257.
6Ibidem,
p. 751.
7Ibidem,
p. 810.
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