La
memoria è il perno ideologico, tematico e linguistico-stilistico
attorno a cui ruotano tutte le opere di Vincenzo Consolo. L'urgenza
del recupero memoriale è la motivazione prima alla scrittura sempre
civile dell'autore di Sant'Agata di Militello; ne determina soggetti
e temi, influendo inevitabilmente sulle strutture narrative; è
inscritta nelle forme della lingua e nella sofisticata elaborazione
retorica e ritmica della sua prosa. Così è
fin dal debutto sulle scene letterarie dello scrittore con un testo
inizialmente trascurato o considerato in chiave genetica (come opera
prima contenente solo i germi di un percorso che si sarebbe
sviluppato successivamente), in realtà perfettamente compiuto. Gli
intenti e la pulsione alla scrittura vi sono già manifestamente
dichiarati.
E
dichiarano che c'è una ferita alle origini del percorso letterario
di Vincenzo Consolo. Di quelle profonde che segnano un destino.
Probabilmente lo scrittore siciliano lo sapeva. Come sapeva che
«April is the cruellest month», tanto da porre queste parole
di Eliot a epigrafe del suo primo lavoro, La ferita dell'aprile
(1963). Probabilmente sapeva anche che in quella ferita, non
rimarginabile, avrebbe dovuto a più riprese immergersi per
nutrirsene e reinventarsi. Il che, insieme alle ricerche approfondite
che le sue opere presuppongono, forse aiuta a comprendere i lunghi
tempi di gestazione dei suoi lavori.
È
una ferita molteplice e complessa quella raccontata nel romanzo
d'esordio; inferta dalla presa di coscienza dell'orrore della guerra,
del dominio incontrastato dell'ipocrisia, dalla scoperta della
perversione e dalla delusione politica. Profondissima quest'ultima
per uno scrittore che, di là dall'adesione a un'ideologia storica,
ha sviluppato un «criticismo etico» (come ebbe a definirlo Di
Legami1)
di forte impronta militante.
Se
la speranza in un progresso costruttivo viene meno definitivamente,
l'unica strada che si apre all'adulto è l'esilio. Dalla propria
terra; metaforicamente, dalla possibilità di partecipare al processo
di emancipazione da un destino che conferma la sua astorica
immutabilità. Ché se formalmente La ferita dell'aprile si
colloca nell'ambito del genere autobiografico, di formazione e
storico (o «storico-metaforico», secondo una definizione proposta a
più riprese dallo stesso Consolo), nella
sostanza racconta di un esilio che esclude ogni ritorno, pure sentito
come irrinunciabile. Ed ecco allora la ferita riaprirsi, sublimarsi
in arte e alimentare una volontà di resistenza che non si vuole
sconfitta e decide l'agonismo proprio della narrativa consoliana.
Perché senza radici non vi è identità, né privata né collettiva.
Non vi è dunque civiltà. Alla cui costruzione lo scrittore non
intende rinunciare. E perché, se non si torna alle radici, viene a
mancare il motivo a ogni agire. Dove le “radici” non sono solo il
passato privato e storico; anzi sono in primo luogo il passato delle
forme linguistiche, delle intonazioni, dei ritmi che a quel passato
appartengono e che quel passato restituiscono. Le forme della
scrittura allora, tese espressionisticamente, racconteranno e insieme
saranno la memoria; urleranno la rivolta contro l'azzeramento del
passato e inciteranno a un risveglio coscienziale.
Nel
primo romanzo (già espressione di una personalità originale, nel
panorama culturale che vede nascere la Neoavanguardia e imporsi
progressivamente un postmoderno destrutturante e ludico), accade
dunque che l'adulto ripercorra a ritroso la sua vita fino a
ricongiungersi con il sé adolescente di cui rivive le vicende,
ripronuncia la lingua, ritrova il mondo e le sue voci. Proprio lo
scarto creato dalla distanza è il motore della spinta al recupero,
che conduce a riassaporare le parole perdute, dimenticate, espulse
dalla memoria, cariche del desiderio, della nostalgia (oltre che
dell'ironia, necessario antidoto alla disperazione) dell'esiliato.
Parole che sono ora, per l'adulto lontano e colto, una riconquista
personale ma soprattutto – inevitabilmente – letteraria: in un
dettato segnato dal plurilinguismo che caratterizzerà tutta la
produzione consoliana, il dialetto è rivissuto nella sua vitalità
orale e gestuale ma anche come segno carico di storia e civiltà.
Tanto più che dialetto e italiano aulico e arcaico si intrecciano e
sovrappongono fino a confondersi in un'ambiguità preziosa e
raffinata, quando la forma dialettale coincida con aulicismi e
arcaismi della lingua nazionale. E la dimensione orizzontale della
scrittura si verticalizza. La parola è un vortice che affonda le sue
profonde e insondabili radici in un passato denso di stratificazioni
e interscambi culturali per esplodere, sensuale e vertiginosa, sulla
pagina scritta. E a tendere la prosa ulteriormente, ecco la
plurivocità che, sulle orme di Gadda e della tradizione siciliana
(in primis dell'inaggirabile Verga), drammatizza il narrato
(frequentissimi i discorsi indiretti e diretti liberi) esaltando la
plasticità e la gestualità della parola e della voce che la
pronunciò. Lo spessore del tessuto linguistico e la vivacità del
discorso narrativo si innestano inoltre in una fitta trama ritmica
che solo in parte riproduce il movimento sintattico-intonativo
dell'oralità dialettale. Sono rime, assonanze e consonanze,
allitterazioni, versi canonici incastonati nel dettato prosastico,
ripercussioni di cadenze generatrici di echi, calati in strutture
sintattiche rigorosamente organizzate e retoricamente elaboratissime.
Memoria naturale e memoria culturale, di nuovo.
Basti
leggere l'incipit:
«Dei primi anni che passai a viaggiare mi rimane la strada
arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i
fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro
passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l'odore di beccume,
la ruota che s'affloscia, la naftalina che vapora dai vestiti. La
scuola me la ricordo appena. C'è invece la corriera […].»2
L'autore
siciliano ha già trovato la sua strada, segnata da ritorni e
ancoraggi nella forza e nelle ferite della memoria. Così è nel
Sorriso dell'ignoto marinaio (1976) e in Retablo (1987),
che della prima fase del neobarocco consoliano rappresenta la sintesi
e l'acme.
Si
scava nella storia, nel Sorriso, in nome di un impulso
profondo all'azione civile. Si rivisita infatti la rivolta di Alcara
Li Fusi del 1860 (di quella di Bronte avevano già scritto Verga e
Sciascia).
Leggiamo
l'incipit:
«E
ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano
rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano
vivaci. Il bastimento aveva smesso di rullare man mano che
s'inoltrava dentro il golfo. Nel canale, tra Tìndari e Vulcano, le
onde sollevate dal vento di scirocco l'avevano squassato d'ogni
parte. Per tutta la notte il Mandralisca, in piedi vicino alla murata
di prora, non aveva sentito che fragore d'acque, cigolii, vele
sferzate e un rantolo che si avvicinava e allontanava a seconda del
vento.»3
Prima,
nel non detto omesso a favore di un esordio in
medias res,
era il viaggio (del Mandralisca e dello scrittore). Ora è l'approdo
– in seguito al quale avverrà la maturazione civile del
protagonista e dopo il quale lo scrittore, risalito dallo scavo
faticoso nel passato, può iniziare il suo racconto che è recupero
memoriale – in un ambiente scosso e sferzato da una natura
perturbante, inquietantemente viva, percepita da una sensibilità
barocca che prova timore e stupore insieme di fronte al movimento
incessante, imprevedibile, leopardianamente «formidabile»4
del cosmo.
Ma, salvati dalla sua azione distruttrice, si accampano la storia e
il coinvolgimento militante nella persona dell'aristocratico
illuminato Enrico Pirajino di Mandralisca, portavoce degli insorti
rinchiusi nel carcere a forma di spirale. Spirale che è «enigma
soluto, falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro
il fondo chiuso, la grande entrata da cui si può uscire seguendo la
curva sinuosa ma logica»5;
in cui si può, anzi si deve sprofondare per righermire il passato e
risalire poi in uno scatto vigoroso della fantasia creatrice, nella
consapevolezza che solo di un tentativo di scuotere le coscienze si
tratta. Modello antropologico è il Ritratto
d'ignoto di
Antonella da Messina (opera recuperata dal Mandralisca a Lipari),
sulla cui tela spicca il sorriso emblematico e ironico necessario a
tollerare (e dire) ciò che lo sguardo «acuto e scrutatore»6
ha visto;
espressione positiva di equilibrio, saggezza e disincanto, proprio
dell'uomo che può decidere se intervenire nella storia in nome di un
ottimismo della volontà o se limitarsi a osservare, arreso al
pessimismo della ragione.
Non
è un caso che, mentre la struttura del genere “romanzo storico”
deflagra dichiarando la relatività di ogni ricostruzione
storiografica, si acutizzi il bisogno di «risacralizzare il
linguaggio, di restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia»7.
L'iperletterarietà della prosa è specchio della spinta ad agire:
recuperare il passato è, per lo scrittore, la prima forma di
intervento. Ma c'è altro, anche. Tutto perennemente si muove nel
cosmo, come sa bene chi è di paesi di terremoti ed eruzioni, conosce
le sinuose architetture della Val di Noto che paiono voler riprodurre
e così assecondare i sommovimenti temibili e improvvisi di una
natura tanto più potente dell'uomo, e crede sia possibile
affrontarla solo mimandone i tremori e gli urti. La trama
fonico-ritmica diventa mimesi del sisma cosmico, storico e
individuale, di quell'«incessante cataclisma armonico»8
di cui è
afferrata e sfruttata la tensione nella direzione neobarocca che
sfocerà in Retablo,
il romanzo che rovescia la «praxis realistica» della letteratura
siciliana (secondo Sciascia9)
in forza di una radicale sperimentazione delle strutture romanzesche,
di una prosa “fantastica” ricreata per suoni, lemmi, sintassi
ardita e ritmi pervasivi e attraverso la riconiugazione del tema
consoliano del viaggio.
Viaggio di sospensione dalla vita e dalle
delusioni d'amore, e di fuga dalla dimensione orizzontale e
lucidamente combattiva della storia. Il pittore settecentesco Clerici
si rifugia nella contemplazione quieta delle rovine siciliane, che
ritrae e proietta in una dimensione mitica, ingannevolmente
eternizzante, utopica. La storia violenta fa capolino ancora, feroce,
ma lo sguardo è subito distolto e a dominare è la natura. Come
domina il romanzo Rosalia, figura ambigua e inafferrabile che ha i
tratti dell'amata di frate Isidoro e della Teresa Blasco per cui
soffre il pittore; che ha il nome della patrona di Palermo e della
donna amata dal brigante Sammataro. Lei che è «la Rosalia d'ognuno
che si danna e soffre, e perde per amore»10;
per un dolore d'amore a cui si soccombe infine, unico sollievo la
scrittura sospesa dell'effusione lirica, che ammalia e stordisce e
rende sopportabile una pena atroce al punto da rendere impossibile il
sorriso dell'ignoto. Non resta che l'abbandono al ritmo
dell'«anarchia equilibrata»11
dell'universo
di cui è ancora figura Rosalia, essenza abbagliante e irrazionale di
un universo in metamorfosi incessante. Ritmo che è, però, ancora,
memoria. Come lo sono le parole.
Perché
anche quando si fatichi ad affrontare la morte e la barbarie, sempre
è iscritta la necessità della memoria nella prosa consoliana che ne
fissa, per quanto possibile, la preziosità e insieme la labilità.
Forse Retablo allora non è sospensione pura. È piuttosto il
grido più urlato e la più sofferta dichiarazione che la memoria è
l'unico ancoraggio nell'instabilità dell'esistenza e la sola risorsa
capace di salvare dallo sprofondamento definitivo nell'inciviltà.
1 F.
Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l'opera,
Marina di Patti (ME), Pungitopo, 1990, p. 49.
2 V.
Consolo, La ferita dell'aprile,
Torino, Einaudi, 1977, p. 3.
3 Idem,
Il sorriso dell'ignoto marinaio,
Torino, Einaudi, 1992, p. 3.
4 Latinismo
(“terrificante”) associato allo «sterminator»
Vesuvio nella Ginestra,
fonte di riflessione ed elaborazione per molti scrittori siciliani,
a partire da Verga.
5 V.
Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio,
cit., p. 117.
6 Ibidem,
p. 6.
7 Idem,
Il poema che non c'è,
in R. COTRONEO, Tangentopoli è un romanzo?,
in «L'Espresso», 7 febbraio 1993, p. 96.
8 Idem,
Lunaria, Milano,
Mondadori, 1996, p. 84.
9 Così
nel risvolto di copertina di Retablo.
10 V.
Consolo, Retablo,
Palermo, Sellerio, 1990, p. 66.
11 Idem,
Lunaria, cit., p. 84.
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