È
passato qualche giorno da quando ho visto due film di Costanza Quatriglio nella Sala
Offcinema/Mastroianni del Cinema Lumière di Bologna. Ma voglio scriverne comunque, perché è raro
assistere a visioni tanto potentemente concentrate, in cui praticamente nulla è
superfluo, anzi tutto è quasi fin troppo incisivo e deflagrante.
Comincio
col primo film, un vero e proprio documentario della durata di 14 minuti, e dalla sua ultima battuta.
“Sta
piangendo perché si è ricordata”. E poi cala il velo nero della
dissolvenza, atteso e inaspettato insieme, ma necessario. Lo
spettatore sente che così doveva essere (grazie all'intelligenza della
regista che lo ha abilmente condotto per mano). È un velo-scure
crudele e definitivo, che penetra e squarta al punto che quasi non se ne rimane scossi, ma semplicemente scioccati. È l'effetto che Costanza Quatriglio è riuscita
ottenere con la sua Breve storia d'amore e libertà
del 2010. A pronunciare la frase del film è Jan, giovane afghano profugo in
Italia che cerca ostinatamente di contattare la madre rimasta in
patria, la quale però ha rimosso il ricordo del figlio. È convinta che lui sia morto. Jan riesce a
parlarle, le dice il suo nome, ma la madre non lo riconosce. Cellulari
suonano, abbandonati su tavoli o letti. Alle domande poste non ci sono risposte né si sviluppano conversazioni. In cabine-gabbie vediamo Jan a un telefono muto
o in attesa di una chiamata, dietro a vetri sporcati dai riflessi di
una città occidentale che ci sembra irreale e sporca e, di certo, schizofrenicamente
astratta dalla realtà del giovane.
Vediamo Jan anche seduto a tavoli che riflettono la sua immagine capovolta. Di certo parla poco, il giovane afghano, che vive di silenzi e di inutili richieste di amore dietro a schermi infrangibili in un mondo rovesciato. È la sua voce fuori campo a spiegare l'assurdo abisso di incomunicabilità in cui è precipitato e di cui è prigioniero (lui che aspirava alla libertà dalla guerra e dalle torture). Nulla può essere spiegato in una realtà che è solo un orrendo non-senso.
Dunque, solo il silenzio duro della dissolvenza, con tempistica perfetta, può suggellare il circolo perverso della mancanza di vie d'uscita, in questa storia breve, dove tutto straordinariamente si tiene e acquista una valenza metaforica che matura nello spettatore naturalmente, senza che sia necessario alcuno sforzo di comprensione.
Giocando di voci in e fuori campo, di inquadrature variate sulla costante tematica e visiva della telefonata mancata e sulle ellissi, Costanza Quatriglio riesce a arrivare dritta al cuore e alla mente dello spettatore, e con grande impatto, oltre che con notevoli intelligenza e sensibilità. Le parole, impronunciabili o inutili, non possono nulla, tanto meno alla fine, quando si scatena la ferocia di un dolore che straripa. Ci sono cose che non si possono dire. Per varie ragioni. Che sia allora la dissolvenza buia a dire l'indicibilità.
Vediamo Jan anche seduto a tavoli che riflettono la sua immagine capovolta. Di certo parla poco, il giovane afghano, che vive di silenzi e di inutili richieste di amore dietro a schermi infrangibili in un mondo rovesciato. È la sua voce fuori campo a spiegare l'assurdo abisso di incomunicabilità in cui è precipitato e di cui è prigioniero (lui che aspirava alla libertà dalla guerra e dalle torture). Nulla può essere spiegato in una realtà che è solo un orrendo non-senso.
Dunque, solo il silenzio duro della dissolvenza, con tempistica perfetta, può suggellare il circolo perverso della mancanza di vie d'uscita, in questa storia breve, dove tutto straordinariamente si tiene e acquista una valenza metaforica che matura nello spettatore naturalmente, senza che sia necessario alcuno sforzo di comprensione.
Giocando di voci in e fuori campo, di inquadrature variate sulla costante tematica e visiva della telefonata mancata e sulle ellissi, Costanza Quatriglio riesce a arrivare dritta al cuore e alla mente dello spettatore, e con grande impatto, oltre che con notevoli intelligenza e sensibilità. Le parole, impronunciabili o inutili, non possono nulla, tanto meno alla fine, quando si scatena la ferocia di un dolore che straripa. Ci sono cose che non si possono dire. Per varie ragioni. Che sia allora la dissolvenza buia a dire l'indicibilità.
Costanza
Quatriglio era presente in sala e ci aveva avvisato che i suoi due lavori
erano stilisticamente differenti. Sicuramente sono lontane anche le
vicende raccontate. Ma c'è uno spesso filo rosso che connette strettamente i
due film. Ed è una cifra che nasce da una prospettiva ideologica:
la volontà di non fornire risposte per l'indicibilità del dramma e
la complessità del reale, e l'intenzione di svincolarsi da una dimensione eccessivamente cronachistica a favore di un discorso metaforico.
Col
fiato sospeso, presentato fuori
concorso all'ultimo Festival di Cannes, si ispira a un fatto di
cronaca che fu ai tempi,
naturalmente, messo a tacere. Accadde che laureandi e dottorandi
presso la Facoltà di Farmacia di Catania subirono un'intossicazione
che avrebbe portato alcuni di loro ad ammalarsi e poi a morire di
cancro. I laboratori in cui lavoravano, non rispettavano le norme di
sicurezza necessarie né erano sottoposti a manutenzioni adeguate.
Un'accusa di “sospetto inquinamento ambientale” è stata però sollevata, e in questi giorni il Tribunale di Catania dovrebbe
decidere circa la responsabilità dei vertici dell'Ateneo siciliano.
Si attende...
Costanza Quatriglio ha deciso di indagare, e ha ricostruito la vicenda soprattutto grazie al diario lasciato da un giovane dottorando, Emanuele Patané, morto di cancro nel 2003. Ma la regista ha deciso di non realizzare un documentario. Il suo lavoro appartiene in effetti a un genere ibrido. Chiamiamolo “sperimentazione”, e piuttosto sfidante. Difficile far girare nelle sale un film di 35 minuti... Eppure, ci ha detto lei stessa, è proiettato nei cinema di Catania da tre settimane, oltre a girare in tutta Italia.
Costanza Quatriglio ha deciso di indagare, e ha ricostruito la vicenda soprattutto grazie al diario lasciato da un giovane dottorando, Emanuele Patané, morto di cancro nel 2003. Ma la regista ha deciso di non realizzare un documentario. Il suo lavoro appartiene in effetti a un genere ibrido. Chiamiamolo “sperimentazione”, e piuttosto sfidante. Difficile far girare nelle sale un film di 35 minuti... Eppure, ci ha detto lei stessa, è proiettato nei cinema di Catania da tre settimane, oltre a girare in tutta Italia.
Di là dal fatto che i laboratori
sembrano di per sé ambientazioni da film dell'orrore,
la protagonista è una nota attrice professionista. Stella è infatti interpretata da Alba Rohrwacher, il cui viso in
primissimo piano torna “ritmicamente” sullo schermo, a
dialogare intimamente con lo spettatore. E quel viso è il perno del
film. Ed è un perno metaforico. Stella, personaggio inventato
chiamato a rappresentare le vittime di Catania, è metafora anche della gioventù italiana che vive in un
paese incapace di gestire tanto il quotidiano quanto il progresso,
per mala fede o ignoranza. Ciò che è accaduto nel laboratorio catanese è
esso pure metafora di un'Italia impreparata ad affrontare il
presente come il futuro.
Costanza Quatriglio infatti, ancora, non tende nessun dito accusatore: racconta l'orrore che c'è, registra il collasso razionalmente inconcepibile di una realtà, prende atto delle sue contraddizioni e delle sue numerosissime sfaccettatture. Sembra che, nei confronti dello spettatore, intenda procedere per shock generatori di presa di coscienza della tragedia e della complessità.
Costanza Quatriglio infatti, ancora, non tende nessun dito accusatore: racconta l'orrore che c'è, registra il collasso razionalmente inconcepibile di una realtà, prende atto delle sue contraddizioni e delle sue numerosissime sfaccettatture. Sembra che, nei confronti dello spettatore, intenda procedere per shock generatori di presa di coscienza della tragedia e della complessità.
Per
fortuna, in Col fiato sospeso, c'è il controcanto di Anna, l'amica di Stella. Lei ha lasciato l'università
perché non ci credeva e si è dedicata al suo gruppo musicale. È lei
che, sulla locandina,
suona protetta da una maschera anti-gas. Ed è la sua musica ad arginare, nel film, il senso di sprofondamento e soffocamento che
coglierebbero lo spettatore lasciato solo alla vista dei laboratori. È
lei che permette di riprendere un po' di fiato, nel film, perché è
difficile riprenderlo nella realtà. Lei che alla fine abbraccia la
sua chitarra, però, dietro a una rete.
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