Per
fortuna c’è molto di più della critica alla civiltà americana
in Guardami, secondo romanzo della statunitense
Jennifer Egan (minimum fax, 2012). Ché altrimenti ci
sarebbe da annoiarsi un po’, soprattutto dopo certa grande
scrittura visionaria e sperimentale (da Thomas Pynchon a David Foster
Wallace).
Leggiamo:
«L’astrazione; la standardizzazione; il collasso dello spazio e
del tempo... fu l’inizio della modernità!»; «Dai alla gente un
boccone di qualcosa di cui le resterà la voglia per tutto il resto
della vita, e non ci sarà bisogno di combatterla. Si consegnerà
spontaneamente. Era questo il complotto americano» (realizzato
attraverso i media); «la cecità attuale derivava da un eccesso di
visione: apparenze scollegate da ogni sostanza reale, lasciate a
galleggiare sul nulla, al servizio di nulla».
Si
parla dunque della civiltà dell’immagine (che raggiungerebbe
l’acme con il
reality
show iper-realista
e alienante)
e della colonizzazione
culturale americana
(considerata ben più insidiosa di quella politica ed economica
perché strisciante e subdola colonizzazione psichica). Però manca
una riflessione originale al riguardo.
Nel
romanzo si prefigurano anche rischi di attacchi terroristici
contro i simboli della potenza statunitense.
Ma non erano
prevedibili? Il World Trade Center era già stato l’obiettivo
dell’attentato del 1993, ricordato tra l’altro nel romanzo. La
cui stesura sarebbe iniziata infatti, ci informa la Egan, alla metà
degli anni Novanta. La pubblicazione negli U.S.A. avverrà nel 2001
(ottima operazione di marketing). L’autrice si è infatti sentita
in dovere di sottolineare la sfasatura tra redazione e pubblicazione,
a dire che le vicende narrate non si ispirano all’attacco alle
Torri Gemelle. Certo. Ma i lettori più attenti della contemporaneità
non potevano non prefigurare un’accelerazione, anche in termini di
violenza terroristica, del conflitto Occidente-Oriente. Per quanto
non fosse immaginabile l’11 settembre. Insomma, non mi pare ci sia
chissà quale straordinaria capacità predittiva.
Ma
ci sono i personaggi. Loro sì vivi di una potentissima personalità,
catturano e non mollano la presa sul lettore che li insegue nei loro
destini imprevedibili e nelle loro psicologie spesso tortuose.
Charlotte
Swenson è l’indiscussa protagonista, non a caso l’unica a
raccontare di sé in prima persona. Potrebbe essere sua la voce che,
in modo assertivo (da imperativo categorico o mantra ipnotizzante),
pronuncia il “guardami” che chiama in causa il lettore fin dal
titolo. Perché Charlotte è consapevole di essere un fantasma se
non viene guardata. Lo sguardo degli altri è per lei specchio
vitale: le rimanda l’immagine di sé necessaria a dotarla di
un’identità.
Charlotte
è originaria di Rockford, «il più tipico dei brutti
paesaggi americani […]: tozzi edifici grandi come hangar e privi di
finestre; uno sciame di insegne di plastica vistose; chilometri di
spiazzi adibiti a parcheggio stipati di grosse automobili americane
[…] una terra priva di persone, fatta eccezione per alcuni esseri
umani […] ridotti a una quasi inesistenza dal gigantismo degli
edifici e dall’enormità del cielo del Midwest».
In
fuga dal grigiore opprimente della cittadina, approda a New York e
alle sue “sale degli specchi” (le stanze del potere rese
invisibili dai vetri accecanti dei grattacieli) dove diventa una
modella di discreto successo. La sua carriera viene però interrotta
da un grave incidente di macchina. «Dopo l’incidente, diventai
meno visibile»: è l’incipit del romanzo. Perché dopo
ripetute operazioni di ricostruzione facciale, il viso di Charlotte è
irriconoscibile, e quindi non più interessante per il mercato della
moda.
Dopo
una fase di difficile riassestamento, vissuta «in vigile attesa di
una nuova scoperta che le rimodellasse la vita», Charlotte diventerà
la star di un “rivoluzionario” reality show. E allora si perderà.
«Fino al giorno dell’incidente, avevo sempre pensato di avere
una pessima memoria, ma la verità era che il passato l’avevo
gettato via, […] per poter procedere, priva di vincoli, verso il
futuro». Ma, senza radici, si è evanescenti. Definirsi solo
grazie allo sguardo degli altri è una dipendenza letale: se gli
altri non ti guardano più, e se poi guardano solo la falsa te ideata
dalla sceneggiatura di un reality impostore, perdi la tua identità e
collassi.
Ruotano
intorno a Rockford (magnetico polo di attrazione) anche gli altri
personaggi principali di Guardami, a cominciare dall’inquieta
adolcescente Charlotte, ansiosa di lasciarsi alle spalle una
vita che non le appartiene. È il suo urlo a esplodere alla fine del
romanzo; un urlo che echeggia, a lungo, disperato e lacerante, anche
a romanzo chiuso. Sigillo (perfetto) di un vortice di storie i cui
protagonisti corrono – spesso inconsapevolmente – verso
l’auto-annientamento. È il grido di chi si è avventurato alla
ricerca di un altrove, spingendosi troppo oltre, in un crescendo di
tensione repressa che sfocia nell’implosione folle.
Imploso
è fin dall’inizio Moose, perso in una schizofrenia
delirante e ossessionato da fantasie apocalittiche.
Alla
negazione di sé giunge poi Z, appartenente a una cellula
terroristica pronta a colpire il cuore simbolico della potenza
americana che l’islamico ha imparato a odiare rabbiosamente, ma
dalla quale finisce per essere fagocitato.
Del
resto, la civiltà postindustriale è malata, ci ripete Jennifer
Egan. Nessun bisogno che qualcuno la attacchi dall’esterno per
distruggerla. Imploderà da sé.
Jennifer Egan |
L’America
priva di storia rincorre lo sviluppo industriale e tecnologico a
ritmi vertiginosamente esponenziali, cancellando le pochissime
(rispetto alla civiltà europea) tracce del proprio passato. Così i
personaggi – sradicati ed emarginati, ansiosi di dimenticare il
loro passato, non scelto e non amato, o spezzati da crisi profonde –
rincorrono il mito di una realtà altra in cui avere ciò che
desiderano o essere ciò che vorrebbero. Ma il percorso intrapreso,
presupponendo la distruzione delle proprie radici, è esiziale.
La
struttura “a ciclone” del romanzo riflette tale percorso a
livello formale. I personaggi, in continuo movimento (per
evoluzione interiore e spostamenti fisici), tutti misteriosamente
collegati tra loro, sono destinati a incontrarsi e a convergere verso
Rockford. La narrazione procede verso il finale (collocato
cronologicamente nel futuro), ma si inoltra contemporaneamente nel
passato dei personaggi che gradualmente si svela, in un significativo
intersecarsi e sovrapporsi di linee temporali. Più ci si vuole
allontanare dal passato, più lui – il grande assente che si
sperava morto – torna prepotente. Mentre i destini dei personaggi
si intrecciano sempre più saldamente. Fino all’arresto finale in
una sorta di “occhio del ciclone”: Rockford, dove dovrebbero
svelarsi i particolari sull’incidente di Charlotte fino a quel
momento sottaciuti. In quell’“occhio” dove potrebbero trovarsi
la quiete del ricongiungimento con sé stessi e insieme lo
scioglimento dell’intreccio, la spirale giunge al suo collasso.
Nella Rockford fantasmatica, lo scioglimento è mancato: la
verità sull’incidente, oggetto di ricostruzione all’interno del
reality show, viene falsificata. Alle proteste di Charlotte che,
prima tra tutti, aspetta di vedere ciò che le è veramente accaduto,
il produttore obietta: «Dimenticati quello che è successo. È
successo questo, anzi, non è ancora successo nulla! Può succedere
come vogliamo noi!». Il passato si perde, per sempre. E, con lui,
l’identità. L’unica possibile. Quella che affonda le sue radici
non in un nuovo costruito sulla distruzione del passato, ma nel
recupero della propria storia.
«Un
mondo ricreato con i circuiti è un mondo senza storia, senza
contesto, senza senso, e poiché noi siamo ciò che vediamo, noi
siamo ciò che vediamo, un mondo così è certamente destinato alla
morte». Parole dell’apocalittico Moose. Non così delirante, in
fondo. Lo sapevamo.
Ma,
a libro chiuso, ancora sentiamo l’urlo della giovane Charlotte.
(già apparso in http://www.sulromanzo.it/blog/guardami-di-jennifer-egan)
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