Point
and shoot.
“Prendi la mira e spara”, ma anche “punta l'obiettivo e filma”.
Il titolo del documentario di Marshall
Curry,
presentato in anteprima italiana nella rassegna
Mondovisioni all'ultimo Festival di Internazionale,
è volutamente ambiguo.
Oggi vi parlo, in effetti, di un
film dai molteplici livelli di lettura che si intrecciano in modo
efficace tra loro al limite della cerebralità.
Si tratta, insomma, di un'opera raffinata. Non sorprende che abbia
vinto il Tribeca Film Festival e che abbia ricevuto il Premio
Speciale della Giuria al Little Rock Film Festival e all'Independent
Film Festival Boston.
Partiamo dal livello più semplice, che intreccia biografia e reportage politico. Point and shoot racconta la storia del nerd Matt VanDyke, 27 anni all'epoca delle riprese e originario di Baltimora, U.S.A. Lo vediamo, nelle prime inquadrature, presentare il suo equipaggiamento: due coltelli, giubbotto antiproiettile, casco fornito di videocamera. Si scopre poi, dalla sua intervista a Curry, che è stato un bambino viziato (figlio unico di un figlio unico di un figlio unico), che è sempre stato molto solitario e che è affetto da un DOC (disturbo ossessivo-compulsivo). Le manifestazioni spaziano da fobie lievi come l'ossessione per la pulizia al terrore di far male per sbaglio. Guidando la macchina, per esempio, Matt si trova costretto a fermarsi: ha la sensazione di aver investito qualcuno.
Come passa il suo tempo il giovane VanDyke? Guarda film d'avventura e d'azione e gioca ai videogames: la sua formazione è improntata al gusto per l'avventura. Matt si innamora poi dell'esotico Medio Oriente grazie al Lawrence d'Arabia di David Lean, e all'università deciderà di studiare quella che è tra le aree geopolitiche più complesse della nostra contemporaneità. Il VanDyke affetto da DOC è, dunque, un perfetto figlio dell'epoca dell'invasione massmediatica su piccolo schermo, grande schermo e internet.
Partiamo dal livello più semplice, che intreccia biografia e reportage politico. Point and shoot racconta la storia del nerd Matt VanDyke, 27 anni all'epoca delle riprese e originario di Baltimora, U.S.A. Lo vediamo, nelle prime inquadrature, presentare il suo equipaggiamento: due coltelli, giubbotto antiproiettile, casco fornito di videocamera. Si scopre poi, dalla sua intervista a Curry, che è stato un bambino viziato (figlio unico di un figlio unico di un figlio unico), che è sempre stato molto solitario e che è affetto da un DOC (disturbo ossessivo-compulsivo). Le manifestazioni spaziano da fobie lievi come l'ossessione per la pulizia al terrore di far male per sbaglio. Guidando la macchina, per esempio, Matt si trova costretto a fermarsi: ha la sensazione di aver investito qualcuno.
Come passa il suo tempo il giovane VanDyke? Guarda film d'avventura e d'azione e gioca ai videogames: la sua formazione è improntata al gusto per l'avventura. Matt si innamora poi dell'esotico Medio Oriente grazie al Lawrence d'Arabia di David Lean, e all'università deciderà di studiare quella che è tra le aree geopolitiche più complesse della nostra contemporaneità. Il VanDyke affetto da DOC è, dunque, un perfetto figlio dell'epoca dell'invasione massmediatica su piccolo schermo, grande schermo e internet.
Sembra una fiction, ma è la storia è vera. Il nerd decide di imprimere una brusca svolta alla sua esistenza. Ispirandosi ai film d'avventura da cui è stato allattato, parte per un road trip sulla sua moto, munito di casco e annessa videocamera che filmerà ogni istante del suo viaggio: 55 000 chilometri attraverso il Maghreb, partendo dallo Stretto di Gibilterra fino al suo personalissimo Medio Oriente gonfio di miraggi. Nelle sue intenzioni, si tratta di un “corso di virilità” accelerato. Apparente bizzarria: il DOC non lo ostacola, anzi lo favorisce. Matt filma in modo ossessivo le situazioni che lo disturbano e le proprie reazioni. In questo modo, riesce non solo a proseguire il suo viaggio, ma sviluppa quella dipendenza da adrenalina che coglie chiunque viva esistenze o periodi ad alta velocità e/o ad alto rischio.
Non vi sembra che Matt, che qualcuno avrebbe dovuto inventare se non esistesse, sia un paradigma virante al surreale – suo malgrado – del giovane contemporaneo, anzi dell'uomo contemporaneo? Ancora di più, Matt è un personaggio che fa levitare Point and shoot a un livello metacinematografico. Il DOC da cui è afflitto, è il DOC che affligge il documentarista di una civiltà dell'immagine e dell'informazione schizoide come l'attuale. Una metaforica schizofrenia attacca, infatti, l'esistenza del giovane di Baltimora e della maggior parte dei ribelli libici accanto ai quali combatterà.
Si è parlato di Point and shoot come di un reportage politico sulla rivoluzione contro Gheddafi, che a me, invece, pare una specola privilegiata per parlare della cultura contemporanea imbottita e traboccante di illusioni per l'incontrollata proliferazione delle fonti di informazione soprattutto visive e il labirinto arbitrario e folle dei social network, e per riflettere sulla probabile crisi del documentario di denuncia in senso stretto. Anche il regista di DOC è afflitto da un DOC. È, anzi, questo “disturbo” che gli permette di svolgere il proprio lavoro. Ma oggi gli permette anche di raggiungere il suo obiettivo? Quanto sono veritieri (e non solo verosimili) i suoi filmati? Nell'universo mai in sé oggettivo del cinema, quanto possono essere onestamente testimoniali o sinceramente militanti le riprese di uomini, donne e bambini imbevuti di fantasmagorie massmediatiche, che mentono e si atteggiano per offrire un'immagine di sé idealizzata a sé stessi prima che agli altri? Può non esplodere il documentario, tanto più se di denuncia, così come molti di noi lo conoscono?
Point and shoot pone queste (e altre) domande senza fornire una risposta. È un film fortunato e intelligente su una “crisi”. Non è, perciò, solo un lavoro “per registi”, ma anche “per spettatori contemporanei”, costretti a diventare più discriminanti, acuti, disincantati e demistificanti di quanto non lo fossero in passato. È, insomma, un DOC sulla percezione. Ed è poi un DOC sull'identità di sé (di noi individui post-post-moderni a cui sembra di poter attingere a qualunque realtà, la quale, al contrario, ci rimane sconosciuta).
Di là dagli evidenti cambiamenti fisici che attraversa, a Matt Van Dyke accade, infatti, di voler cambiare il proprio nome a un certo punto della sua spericolata avventura. Gli capita anche di fermarsi in Iraq dove, stanco di assistere agli eventi dietro a una videocamera, impara a imbracciare le armi. La tappa più importante del suo viaggio sarà la Libia, dove verrà accolto tra i ribelli anti-Gheddafi e inizierà un percorso più profondo (individuale e metacinematografico). Per cinque mesi e mezzo è rinchiuso in una delle famose prigioni libiche dotate di un solo minuscolo foro che apre alla vista del cielo. Soprattutto, comincia a essere infastidito dalle riprese che lo fanno sentire sdoppiato tra un auctor e un agens che non riescono a coesistere perché l'agens recita in modo sistematico, istintivo e compulsivo. La videocamera costringe, alla fine, a riconoscere il carattere non autentico dell'identità che si era assunto: senza videocamera Matt sarebbe diverso; la videocamera lo costringe a un ruolo. Che possa essere questo “svelamento”, allora, un possibile nuovo scopo del documentario? Tanto più che la condizione di Matt è condivisa da molti combattenti, che posano per la loro foto o il loro video eroico da postare su Facebook.
Ancora: in questa dimensione esplosa, centrifuga e straniante, quale ruolo è riservato all'autentica coscienza civile e alla presa di posizione attiva? E quale funzione può svolgere un documentario di denuncia? Il film di Marshall Curry parla di tutto questo partendo dall'esperienza paradossale di Matt VanDyke. Non perderei l'occasione di vederlo e di farlo vedere a figli o a studenti per discuterne con loro. A questo link, intanto, il trailer di Point and shoot, che ha il grande merito di bombardarci di domande e di far deflagrare le contraddizioni del genere “documentario” contemporaneo.
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