Sono palestinesi
le voci che ci raggiungono attraverso le pagine dell'architetta e
scrittrice Suad Amiry, cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il
Cairo, e ora residente a Ramallah. E
palestinese è la stessa autrice di Golda
ha dormito qui (Feltrinelli, 2013,
traduzione di Maria Nadotti). Sono voci che ci giungono in frammenti,
come sottratte l silenzio a cui presto
ritornano, grazie al riserbo di una
scrittrice che, con tatto e delicatezza, non può o non vuole
indugiare sulla sofferenza bruciante e privata dell'espulso dalla
propria casa e dalla propria terra.
Del
resto ha sempre voluto far ridere, Suad Amiry, che è riuscita a
concederci istanti di ironia anche in questo romanzo duro. Di certo
non ha ceduto al voyeurismo morboso di chi ama immergersi
nella disperazione e devastazione altrui. Del popolo palestinese, in
questo caso. Come si è sempre rifiutata di ricorrere a toni aspri e
ambigui, rivelatori di un rancore malcelato o di un'ansia più o meno
pressante di risarcimento.
Suad
Amiry conduce fino a noi voci palestinesi attraverso lo spazio che ci
separa da quella complessa e per molti versi assurda realtà che è
Gerusalemme,
anzi Gerusalemme est (ebraica) e Gerusalemme ovest (palestinese):
zona già segnata da scontri, violenze ed espropriazioni, e
martoriata dopo la guerra
dei Sei Giorni
(1967). Fu allora, infatti, che Israele decise di ampliare la zona
ebraica della Città Santa, espandendola in una sorta di semicerchio
verso sud, est e nord; un semicerchio che tra l'altro includerà la
Old
City
e molti villaggi palestinesi, cresciuti nel frattempo fino a divenire
veri e propri agglomerati urbani.
Quale fu il destino degli arabi che risiedevano in quel semicerchio allargato? L'espulsione dalle proprie abitazioni e l'abbandono della terra in cui erano nati e avevano trascorso, fino a quel momento, l'esistenza. Rifiutata ogni richiesta di tornare a risiedere legalmente nelle dimore di famiglia, data la legge del 1950 stilata dopo la Nakba del 1948. Nakba: parola araba che significa “catastrofe” e con cui i palestinesi denominano gli eventi del '48, che per gli israeliani furono la loro guerra di Indipendenza. Bene, in base alla succitata legge, che mirava a ripulire i territori occupati da ogni presenza etnica palestinese, i legittimi proprietari arabi furono dichiarati “assenti presenti”: esistenti per lo Stato di Israele ma inesistenti quanto a diritti di proprietà.
Quale fu il destino degli arabi che risiedevano in quel semicerchio allargato? L'espulsione dalle proprie abitazioni e l'abbandono della terra in cui erano nati e avevano trascorso, fino a quel momento, l'esistenza. Rifiutata ogni richiesta di tornare a risiedere legalmente nelle dimore di famiglia, data la legge del 1950 stilata dopo la Nakba del 1948. Nakba: parola araba che significa “catastrofe” e con cui i palestinesi denominano gli eventi del '48, che per gli israeliani furono la loro guerra di Indipendenza. Bene, in base alla succitata legge, che mirava a ripulire i territori occupati da ogni presenza etnica palestinese, i legittimi proprietari arabi furono dichiarati “assenti presenti”: esistenti per lo Stato di Israele ma inesistenti quanto a diritti di proprietà.
È
di questi present absentees (di ceto medio-alto), ora
ostinatamente resistenti, ora spezzati, ora traumatizzati, che Suad
Amiry si fa portavoce in Golda ha dormito qui. Libro in cui
per la prima volta la stessa autrice, nonostante il dolore mai
superato, riesce ad accennare per lacerti alla sua privatissima
esperienza.
Anche
Suad Amiry è infatti un'absentee,
come il grande architetto palestinese Andoni Baramki, i cui edifici
costellano l'intera Gerusalemme,
e che costruì la propria dimora personale dedicandola alla moglie
Eveline. Grazie alla scrittrice, lo seguiamo mentre, la bocca
allargata in un sorriso fermo ed enigmatico, tiene stretta a sé una
misteriosa cartella rossa in cui, si scoprirà, ha accuratamente
custodito i documenti che attestano la proprietà della sua casa.
Quella casa di cui tenta invano di riappropriarsi e che, nell'attesa,
non riesce a non visitare ogni giorno, valicando da
clandestino
il confine tra le due Gerusalemme per «trovarsi di fronte
all'amata», sorriderle e «sfiorare
la
sua superficie morbida e le sue curve ondulate».
Tra
le epigrafi di Golda ha dormito qui si legge: «Mi è stato
detto: “Casa è dove sono”. Ce la metto tutta, ma non sempre ce
la faccio». Andoni Baramki non ce la fa, come non ce la fa Huda,
l'altra grande voce che si solleva, energica e furente, dalle pagine
di un libro che fonde realtà storica e rielaborazione romanzesca.
Non ogni giorno ma ogni settimana Huda avverte la compulsione a
rivedere l'abitazione per cui ha visto suo padre piangere, e a volte
ne trafuga oggetti, decisa a rischiare la prigione da cui in effetti
entra ed esce a più riprese. E c'è poi Suad, che dentro di sé
alimenta quella serpeggiante «depressione silenziosa» che ha sempre
evitato di affrontare.
Voci
si susseguono a voci, perché «la ferita è ancora aperta». Lo
scrive la stessa Amiry: «Mentre i palestinesi ce la mettono tutta a
dimenticare quando dovrebbero ricordare, gli israeliani ce la mettono
tutta a ricordare quando dovrebbero dimenticare». Ma è anche vero
che «i palestinesi rifiutano di essere vittime».
Rimane
che le case di proprietà palestinese sono ora abitate da israeliani.
Anche «Golda ha dormito qui», in una di queste case. Lo ricorda
Huda. Golda è la Meir che fu per Ben-Gurion «il miglior uomo al
governo» e per il popolo israeliano una madre. Per Suad Amiry è
l'Israele prepotente e bugiardo che ha occupato una terra non sua e
amputato uno Stato.
Specchio
dell'umanità palestinese della diaspora, la scrittura di Suad Amiry
accosta frantumi di ricordi, rapide inquadrature (veloci, perché non
indulgano nella contemplazione di un dolore da viversi con
riservatezza e dignità), foto di edifici e ritratti di famiglia.
Sono molti gli spazi bianchi: gli attimi del silenzio solidale, di
quel tempo sacro in cui si lascia spazio all'espressione inviolabile
di una sofferenza che non si può dire, del sipario generoso che cala
su momenti di vita laceranti. E ci sono poi i versi, che interrompono
la prosa o si organizzano in componimenti che cantano, rendendolo
sopportabile, il dolore della ferita che Suad Amiry ha sempre temuto
di guardare e sentire.
Anche
per questo credo che valga la pena leggere Golda ha dormito qui.
Per riconoscere alla scrittrice il merito di aver affrontato
«l'occupazione della mente e delle emozioni» generata dal
ricordo che tanto la spaventava. Ma col suo canto Suad Amiry,
mettendocela tutta, ci è riuscita. E ha sigillato il suo
libro-testimonianza con una coraggiosa apostrofe alla sua Palestina
(«Ci lascerai mai liberi?»), seguita da una foto di una famiglia
raccolta davanti a una casa palestinese, ennesimo memento.
Perché non si dimentica. Si resiste e si testimonia.
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