mercoledì 9 aprile 2014

Orhan Pamuk racconta per immagini il suo " Libro nero": "Ecco come scrivo e perché scrivo così"

Volete sapere come scrive Orhan Pamuk? È stato lo stesso autore turco a rispondere a questa domanda, almeno in parte ma in modo alquanto suggestivo, nel corso della sua prima Lectio Magistralis tenutasi il 7 febbraio scorso presso l'Università di Bologna.

Dopo una breve presentazione, Umberto Eco, in giacca e cravatta arancione, si è allontanato col suo bastone (è reduce da un piccolo incidente, pare) per lasciare spazio alla voce dello scrittore che, oltre a essere Premio Nobel per la Letteratura 2006, è anche un affascinante conversatore.

 
Osservate dunque queste immagini, che lo stesso Pamuk ha proiettato sul grande schermo alle sue spalle.
È così che l'autore ha deciso di raccontare sé come scrittore e i suoi romanzi, e per una pluralità di ragioni.
Di certo, possiamo definire a pieno titolo Pamuk uno scrittore visivo. Anzi, bulimicamente visivo; affascinato e ossessionato da linee e tratteggi prepotenti (non dai colori chiassosi a cui un turista distratto e superficiale assocerebbe la sua Istanbul); dalla stessa tessitura di foto, mosaici, dipinti (Impressionismo e Postimpressionismo i suoi primi grandi amori); dall'ekphrasis.
 

Pamuk, occhi aperti sul mondo che lo circondava, si dedicò alla pittura dai 7 ai 23 anni, quando decise di iniziare a scrivere. Eccolo in una foto che lo ritrae seduto sul balcone del suo appartamento affacciato sul Bosforo, un anno prima che decidesse di abbandonare l'arte figurativa, suo interesse esclusivo in una famiglia di ingegneri civili dell'upper class, per di più in uno Stato privo di una tradizione pittorica.

Lo scrittore ha infatti ammesso di appartenere alla categoria di scrittori dotati di quella che Coleridge definì «immaginazione secondaria», quella che «dissolve, diffonde, dissipa, allo scopo di ri-creare; e, quando questo processo è impossibile, lotta, quale che sia l’esito, per idealizzare e unificare. La sua essenza è vitale, proprio come tutti gli oggetti (in quanto oggetti) sono per loro essenza fermi e morti». Come lo sono gli strati pressoché infiniti dell'Istanbul attraverso la quale Pamuk racconta della sua Turchia e di sé. Strati morti e rivitalizzati dallo sguardo, dalle parole e dalle architetture romanzesche di uno scrittore che, non a caso, ama il bianco e nero del tratteggio che ri-crea (o tenta di farlo) il ricordato e l'osservato, ridonando loro visibilità e cercando di trovare nel loro intreccio, anche se vanamente, un senso.

Nietzsche lo avrebbe definito una personalità "debole". Pamuk stesso lo ha sottolineato: per il filosofo tedesco, le personalità forti parlano di sé per parlare d'altro; le personalità deboli parlano d'altro per parlare di sé. Bene: Orhan Pamuk parla di sé raccontando l'Istanbul sconvolta dal crollo dell'Impero Ottomano e dalle trasformazioni, acceleratesi nell'ultimo quindicennio, che ne hanno rivoluzionato il volto.
Parla delle sue contraddizioni spaziali e temporali. Del suo fascino per chi la approcci superficialmente e da lontano, e della sua tristezza e decadenza visibili solo agli occhi di chi si inoltri nei quartieri più interni e nascosti rispetto alla splendida riva del Bosforo, spesso sfumata da una leggera e malinconica foschia. 
Parla del caos contemporaneo intriso dei ricordi di un passato in cui Istanbul era un garbuglio di case in legno affacciate su vicoli stretti, ora bruciate per lasciar spazio all'avidità della speculazione edilizia.
Parla di un'Istanbul sostanzialmente sconosciuta ai più degli occidentali. Un luogo di meraviglie divenuto un labirinto. Un'Istanbul che è anche Pamuk e la sua malinconia.

Voracità dello sguardo e della conoscenza, tra collezionismo enciclopedico, barocco e postmoderno, conducono a una tracimante vena affabulatoria: a un incastro di immagini attinte alle più svariate fonti (personali e culturali), che prolificano le une accanto e sopra alle altre, giorno dopo giorno, nell'immaginazione dell'autore che le traduce in parole; un autore visivo che, inesausto e insaziato,  traccia contorni e rette in una trama fitta e mai conclusa sui fogli da disegno che ispirano e accompagnano la sua scrittura, essendone espressione parallela, necessaria e complementare. C'è tanto da raccontare, e non si vuole che vada perduto. Ma sempre qualcosa manca, e la tessitura si fa percorso.  Allora la malinconia  incontra il mistero della matematica, nel tentativo di arginare la morte da entropia.

 
Una malinconia, tuttavia, ben diversa da quella europea a cui Burton ha dedicato la sua Anatomia della malinconia. Per gli occidentali, si tratta di una malattia da cui liberarsi, ma anche da assaporare, esplorare e vivere energicamente perché straordinaria (potenzialmente) fonte di ispirazione. La malinconia turca - e di Pamuk - è intrisa della rassegnazione in bianco e nero che può condurre a vedere nella sconfitta un marchio di nobiltà. È la malinconia figlia della fine dell'Impero Ottomano, oltre che di lontana influenza europea. Tutti coloro che hanno scritto di Istanbul, da Chateaubriand a De Amicis, da Baudelaire a Nerval, hanno sempre notato che, vista da lontano, mentre ti avvicini alle sue coste e la osservi dal ponte di una nave, Istanbul è meravigliosa. Ma, se vai oltre le sue quinte splendenti, vedi le immagini che certi fotoreporter cari a Pamuk hanno registrato; quelle che hanno colpito il giovane pittore, nutrito l'immaginazione dello scrittore e contribuito a  formare la sua visione dell'esistente oltre al suo modus scribendi.


http://www.einaudi.it/libri/libro/orhan-pamuk/il-libro-nero/978880618783Il libro nero (Einaudi, 2013), a cui era nello specifico dedicata la Lectio Magistralis, è stato raccontato in questo modo da Pamuk. Il romanzo è il suo tentativo di scrivere di Instanbul come fosse la Dublino di Joyce: un luogo in cui qualcosa di prezioso e ambiguo è scomparso; il protagonista lo cerca per le labirintiche strade di una città perduta, in cui lui stesso si perde. Ecco il percorso grazie al quale e lungo il quale si accumulano dettagli privi di  centro e direzione



Il dramma è dato proprio dal collage dadaista in cui tutto, di là da ogni prospettiva razionale, trova il suo spazio: il kitsch come la cultura alta, la miniatura come il paesaggio, il segno astratto come l'uomo, il presente come il passato.
Dettagli accostati, che si contaminano a vicenda, che ridondano variati assecondando il movimento di un viaggio che cresce e si alimenta di sé stesso, alla ricerca compulsiva e insieme lucida di un impossibile compimento.


Ama le “rovine della modernità”, infatti, Pamuk; e nello stesso tempo si rivolge al misticismo sufi e alla sua numerologia, che sarà in parte gioco alla Perec o all'OuLiPo, ma è gioco molto, molto serio.

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