Non
posso dire di sapere cosa significhi essere madre di un bambino
autistico.
Ho avuto però la fortuna di incontrare persone “speciali”. Mi
rifiuto di scrivere “afflitti da autismo” non per essere
politicamente corretta, né perché sottovaluti le difficoltà e il
dolore di chi desidera ardentemente comunicare con una persona amata
che proprio nel comunicare presenta gravi impasse.
È che quei ragazzi mi hanno incantato e non ho mai pensato – né
penso oggi – a loro come a essere “afflitti”. Li ho ammirati e
amati. Mi hanno aperto cuore e mente, grazie a quel loro sguardo
capace di vedere e sentire quello che non avevo mai notato, o di farmi
ricordare quello che non vedevo o non sentivo più. E poi c'è quel
senso di stupore, ancora vivo, di fronte a talenti unici e affinati
che aspettano solo di essere scoperti e riconosciuti.
Non
potevo dunque non vedere The
Horse Boy,
il documentario girato nel
2007 dal regista Michael Scott che, con la sua troupe, ha seguito la
famiglia Isaacson nel corso di un durissimo viaggio dal Texas alla
Mongolia, alla ricerca di una guarigione per il proprio figlio autistico, Rowen.
Soggetto a crisi di ira incontrollabili, in un susseguirsi
angosciante di «Voglio» e «Non voglio» urlati, il bimbo ha
affrontato tutte le tappe di un percorso che ha comportato infinite
ore di macchina o a dorso di cavallo. Non ne è tornato guarito, ma
“migliorato”. A guarire sono stati i suoi genitori, finalmente in
grado di accettarlo e supportarlo, assecondando la sua passione per i
cavalli.
Si
sa che ogni autistico
ha una passione, un interesse o un'intelligenza concentrati su un
unico oggetto o ambito. Dopo aver notato, per un caso fortuito,
l'amore
del bambino per i cavalli
– «sono buoni», dice Rowen –, il padre prende una
decisione. Sapeva di sciamani in grado di compiere guarigioni
miracolose. Il luogo che collegava il mondo sciamanico a quello dei
cavalli era la
Mongolia, dove resiste, in una piccola comunità di circa 200 membri,
il Popolo delle Renne (i Durkha), depositario di una delle più
antiche tradizioni sciamaniche.
Dopo dubbi e resistenze, la famiglia decide di partire.
Purtroppo
il documentario che quel viaggio esteriore e interiore avrebbe potuto
raccontare con l'intensità comunicativa che avrebbe meritato, è un
film fallito.
Sappiamo, ormai, che il documentario non è mera registrazione di
fatti, bensì un genere cinematografico a pieno titolo. Se non tutto,
moltissimo è dunque nelle mani del regista. Il quale però, in The
Horse Boy,
sembra assente. Per volontà di non enfatizzare una “tragedia”
cedendo a facili sentimentalismi? Nemmeno io avrei voluto questo.
Rimane che la fotografia è poverissima; il montaggio e le interviste
imbarazzanti. The
Horse Boy è
un resoconto muto. Siamo noi spettatori a dover aggiungere quel
surplus di sguardo, reattività intellettuale ed emozioni che il
documentario è incapace di suscitare.
Perché
vale comunque la pena di vedere The
Horse Boy,
dunque? Perché racconta
un percorso di maturazione genitoriale. Isaac e sua moglie hanno
elaborato la «perdita di un sogno»: avere un figlio come lo avevano
sempre desiderato.
Rupert giunge a ringraziare Rowen: grazie a lui è un padre migliore,
perché ha dovuto imparare ad ascoltare i bisogni e gli interessi di
suo figlio, che non ha più intenzione di cambiare. Parlava di
“guarirlo”, prima del viaggio. La moglie fa pace con un passato
familiare di malattie mentali e col suo portato di sensi
di colpa laceranti.
E finalmente il
talento di Rowen è valorizzato:
la sua passione per i cavalli lo appaga, lo fa sentire al sicuro,
lo rende in grado di comunicare meglio coi genitori e lo conduce a
una maggiore indipendenza. Gli
Isaacson cercavano la guarigione
per loro figlio. Hanno trovato la loro guarigione e, con questa, la libertà.
Non credo che la vicenda
possa, tra l'altro, essere di interesse solo per le mamme e i papà
di un bambino autistico. Non lo credo per nulla.
Che il film sia una cronaca
mal girata e un susseguirsi di scene incapaci di farci provare sulla
pelle quanto di profondo è avvenuto agli Isaacson, è un'altra questione. Lo
spettatore sensibile e attento sarà in grado di emozionarsi e, se
avvertirà punti di contatto tra la storia degli Isaacson e la
propria, non potrà non avvertire un non so che sommuoverglisi
dentro.
Quanto
a me, dopo aver guardato il documentario, mi sono chiesta: quanti
genitori
intraprenderebbero tutte le strade possibili, anche le più
follemente creative, per cercare una via d'uscita a una situazione
percepita come intollerabile? Quanti genitori si rendono conto che, troppo spesso,
sono loro a dover guarire e non loro figlio a dover cambiare?
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