Si
intitola The
Good Life il
documentario con cui Niccolò Ammaniti debutta alla regia.
Per molto tempo, ha raccontato nella sua Masterclass rivolta agli
studenti della Biografilm School venerdì scorso, hanno cercato di
convincerlo a prendere in mano la videocamera, sempre senza successo.
Ma alla fine qualcuno ci è riuscito: tre
anni fa ha cominciato a prendere forma un progetto
e lo scrittore ha accettato la proposta dell'ormai defunta Current
di girare un documentario sull'India. Grazie all'intervento della
casa produttrice Videomante, si è così arrivati a The
Good Life,
presentato
in anteprima nazionale nella Sezione Italiana del Biografilm
Festival 2014.
Diciamo
subito che già la
presentazione in puro stile Ammaniti è stata divertente e
illuminante.
Il Direttore del Festival Andrea Romeo ha scherzosamente rimproverato
lo scrittore, la produttrice Erica Barbiani e il direttore della
fotografia Stefano Saverioni perché retrocedevano troppo verso lo
schermo rischiando di trovarsi a breve dietro le quinte. La
produttrice si è giustificata con un sorriso: «siamo
un trio così improbabile...».
Come darle torto? Ma siamo nel mondo di Ammaniti, che poi con le sue
battute ha subito introdotto gli spettatori all'atmosfera del suo
documentario.
Il
titolo si presenta serioso e promette viaggi spirituali alla ricerca
di sé. Racconta
le vicende di tre giovani italiani che negli anni Settanta andarono
in India senza immaginare che nel loro Paese non sarebbero più
tornati.
Ma, anche qui, trattandosi di Ammaniti, c'era da prevedere che le
aspettative sarebbero state rovesciate. Già nella citata
Masterclass, del resto, lo scrittore aveva affermato: «Non
sono interessato alla spiritualità».
Stando
alle sue parole, non lo fu nemmeno nel suo primo viaggio in India,
compiuto ai tempi degli studi universitari. Eppure capitò proprio
nella
Rishikesh che fu nel 1968 meta dei Beatles
interessati
alla meditazione trascendentale.
Ma nella città che è tappa iniziale di un pellegrinaggio sacro ed è
sacra in sé perché alla confluenza di tre fiumi tra cui il
purificatore Ghat Triveni, lo scrittore si ritrovò perché era
economica. Lui voleva “fare l'inglese”: viaggiare leggero e
spendere poco o niente. Del luogo sacro ricorda un tempio in cemento,
mucche che vagano nelle strade mangiando carta e lebbrosi certificati
(perché c'erano anche i deformi non malati che si infiltravano nel
gruppo). Rishikesh gli regalò però anche l'incontro con Baba
Gianni, un guru che aveva stabilito il suo tempio sotto un albero, ed
era originario di Frascati. Di quell'uomo che lo aiuterà a scoprire
l'India, colpì lo scrittore la sua «memoria
bloccata»
al tempo in cui aveva lasciato l'Italia. Oltre a ciò, più
che essere interessato alla sua “nuova vita”, Ammaniti si sentì
intrigato dai motivi che lo avevano spinto a lasciare il suo Paese.
Questa
curiosità trova ora espressione, almeno parziale, in The
good life,
che lo stesso Ammaniti
non sa «se è un documentario o una serie di interviste».
E anche qui diciamolo subito, sicuri che lo stesso novello regista ne
sia consapevole: si tratta del debutto di uno scrittore che maneggia
con la scioltezza di un abilissimo giocoliere le tecniche narrative e
che è dotato di un originalissimo e potente immaginario personale,
ma che ancora non padroneggia appieno videocamera e montaggio. Il
risultato è che, anche solo dal punto di vista narrativo, la
stupefacente eccentricità degli intervistati è tutta immanente ai
loro “caratteri”, ma non è resa con adeguati strumenti
cinematografici.
Comunque,
dribblando tra prima prova registica e autoconsapevolezza, Ammaniti
ci regala un documentario godibilissimo.
Dimentichiamo
dunque ogni esotismo ed entriamo nell'esotico in sé universo dello
scrittore. Incontriamo Baba
Shiva,
che un giovane rematore indiano sta trasportando sulle rive del
Gange. Immerso in un'India travolta dal caos delle sue
contraddizioni, lo ascoltiamo parlare vicentino, avvolto nel suo
sacro abito rosso, da una quantità massiccia di collane e decorato
da fiori colorati. Baba Shiva è scappato dall'Italia perché non
voleva fare il servizio militare. Volle tornare per partecipare al
funerale del padre, ma lo mancherà, e non per un lapsus alla Svevo.
Sarà fermato alla frontiera dove scoprirà che su di lui pendono non
si sa quanti mandati di cattura internazionale. Che siamo nel 1972
forse non giustifica l'assurdo. Il futuro Baba Shiva decise così di
lasciare il nostro strano Bel Paese e raggiungere l'India, dove,
grazie a un tenero vitello bianco, avrà inizio la sue
trasformazione, benché anche lui – come Ammaniti – fosse ben
lontano da ogni impulso di ricerca spirituale. Se volete, potete
andare a cercarlo a Benares, dove ora vive.
È
poi la volta dello straordinario Eris,
stabilitosi sull'Himalaya con la sua famiglia dopo vent'anni di
nomadismo che gli sono serviti – parole sue – a «togliersi di
dosso la merda della scuola italiana» che uccide il potere
dell'immaginazione e che lo aveva cacciato, per di più con
l'etichetta di semi-infermo di mente. Il ribelle anti-democratico che
non ha più voluto saper niente dell'Italia e che parla con forte
accento vicentino, ha trovato in India lo «spazio fisico e sociale
per essere quello che era» e soprattutto ha raggiunto la
«liberazione
dalla paura».
Bizzarro
all'eccesso è infine Baba
Giorgio,
di Torino. Era alle medie quando una voce nella testa iniziò a
ripetergli: «Tra poco andrai via e non tornerai più». E a 14 anni
scappò nell'India dove la sua vita, ora, ha un senso. Ci racconta
quello che si ricorda, questo personaggio con cui passiamo
dall'eccentricità allo straniamento.
Come
si può vedere, sono tutti personaggi all'Ammaniti, che ci conducono
intervista dopo intervista a scalare non l'Himalaya, ma le vette
dell'inverosimile e del paradossale. A risate che non ci saremmo
aspettati e che portano però con sé valanghe di sensazioni e di
retro-pensieri, che solo a
posteriori
acquistano chiarezza e aprono alla comprensione umana che
riconosciamo in Ammaniti. Le
esistenze dei tre spatriati sono state davvero salvate da un'Italia
che le avrebbe strangolate e offese, come insinua il blues che
accompagna molte scene.
In
conclusione, nonostante i suoi limiti di “abbozzo”,
nell'originale The Good Life
lo sguardo e la mano dello scrittore sono ben presenti. Per fortuna.
O non sarebbe accaduto che, all'uscita dalla sala, un ragazzino
chiedesse alla propria madre: «Ma è vero?». Già. È proprio
Ammaniti.
(già, con varianti, qui: http://www.sulromanzo.it/blog/docufilm-the-good-life-di-niccolo-ammaniti)
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